Personaggi - beati

  • 1844,19 marzo: Giovanni Scalvinoni (Innocenzo) nasce a Niardo in Valcamonica (Brescia)
  • 1856-1861: studia a Lovere (Bergamo) nel collegio municipale poi entra in seminario a Brescia
  • 1867. Il 2 giugno: viene ordinato sacerdote.
  • 1867-1869: vicario coadiutore a Cevo in Valsaviore. Poi vice-rettore del seminario diocesano di Brescia e dopo un anno viene rimosso. Allora va a Berzo (Valcamonica, Brescia) come vice-parroco
  • 1874, 16 aprile: inizia il noviziato al convento dell'Annun-ciata (Cogno-Valcamonica, BS)
  • 1875, 29 aprile: emette la professione di voti semplici e vien destinato al convento di Albino.
  • 1876: ritorna all'Annunciata
  • 1878, 2 maggio: emette la professione solenne ed è vice-maestro dei novizi.
  • 1879: la sede di noviziato viene spostata a Lovere. Lui invece rimane all'Annunciata
  • 1880, ottobre: va a Milano-Monforte nel gruppo redazionale della rivista Annali Francescani
  • 1881, febbraio: va per supplenza ai Sabbioni di Crema
  • 1881, giugno ritorna all'Annunciata.
  • 1889, autunno: viene incaricato di predicare gli esercizi spirituali nei conventi più importanti, Milano, Albino, Bergamo e Brescia
  • 1890, 3 marzo: ad Albino si ammala gravemente e muore nell'infermeria di Bergamo.
  • 1890, 29 settembre: dal cimitero di Bergamo le sue spoglie vengono trasferite solennemente a Berzo
  • 1961, 12 novembre: Giovanni XXIII lo dichiara "beato".

Gesù è da tutti offeso nel mondo: tocca a me non lasciarlo solo nell'afflizione. L'amore di dio non consiste in grandi sentimenti, ma in una grande nudità e pazienza per l'amato Dio. Non c'è altro mezzo migliore per custodire lo spirito che patire, fare e tacere. Avrò gran desiderio d'esser soggetto a tutti e in orrore l'essere preferito al minimo. Son trattato anche troppo bene: Meriterei di peggio io, che ho così tanti debiti con il Signore. (b. Innocenzo da Berzo)

 

Nella liturgia viene ricordato il 28 settembre

 

"L'AMOROSO NULLA"

Don Giovanni Scalvinoni aveva solo tre anni di sacerdozio quando venne destinato a Berzo come vice-parroco. Era stato ordinato il 2 giugno 1867 a Brescia dal vescovo Girolamo Verzeri, che lo aveva subito mandato a Cevo in Valsaviore a svolgere l'ufficio di vicario coadiutore, ma dopo due anni il vescovo l'aveva richiamato a Brescia e nominato vice-rettore del seminario diocesano. Uffici di autorità responsabile e direttiva erano per lui una sofferenza, tanto che dopo solo un anno venne rimosso perché - leggiamo nei processi - "quanto ad esercizio di autorità era men che nulla". Ma era insuperabile quando si trattava di aiutare un povero o di restare in adorazione davanti al tabernacolo o di leggere e studiare. Infatti la mamma, Francesca Poli, che l'aveva dato alla luce 26 anni prima a Niardo in Valcamonica il giorno di san Giuseppe del 1844, conoscendolo bene e abitando con lui, doveva stare attenta perché tutto poteva scomparire da casa: bastava arrivasse un povero e ogni cosa utile andava a finire in quelle mani, anche un pollo in pentola già pronto per la cena, "tanto noi possiamo mangiare anche domani", diceva con disarmante calma il figlio, perché "bisogna considerare il nostro prossimo come coricato nel grembo del Salvatore". Se non era in chiesa a confessare o a svolgere direzione spirituale o altri ministeri, inappuntabilmente era in preghiera silenziosa vicino all'altare e "diversivo alle lunghe adorazioni era l'entrare in sacrestia a leggervi un articolo della Somma di san Tommaso".

Ma qualcosa lentamente lasciava trasparire dal suo comportamento, come se la sua aspirazione fosse altrove, più in alto. In effetti dall'altra parte della valle, adagiato sulla costa degradante dei monti, svettava il campanile e la sagoma del convento-eremo dell'Annunziata, fondato nel '400 dal beato Amedeo Menez de Silva e abitato da poco più di 30 anni dai cappuccini. Là sospirava il suo cuore per trovarvi l'appagamento della sua sete di interiorità e di silenzio mistico. Aveva lasciato scritto nelle sue carte: "La maggior necessità che noi abbiamo è il tacere davanti a questo nostro gran Dio, così con l'appetito come con la lingua, la cui loquela -quella che egli ascolta più volentieri - è loquela taciturna d'amore".

Questa aspirazione era il risultato di una forte esperienza cristiana cresciuta in una umile famiglia di contadini tra Niardo e Berzo, dove la sofferenza di dolorose separazioni (il padre Pietro Scalvinoni e la nonna morirono quando Giovannino era ancora piccolo), accompagnata da quei sentimenti profondi vissuti con la riservatezza, il pudore e la nobiltà dei poveri, era condivisa nel ritmo di preghiere e di devozioni apprese da una tradizione di fede concreta e forte come le montagne che circondavano il suo paese natio.

Lo zio Francesco, che gli aveva fatto da padre, lo fece studiare a Lovere nel collegio municipale per cinque anni di ginnasio, fino al 1861 e qui, con maestri di grande spirito, precisò l'orientamento spirituale della sua personalità fatta di vivace intelligenza (ha i massimi voti), diligente applicazione al lavoro, premurosa attenzione verso i più deboli, desiderio di servire e di scomparire e una passione sfrenata per l'Eucarestia. Invece di continuare gli studi, che gli erano stati offerti anche gratuitamente dai superiori del collegio, egli aveva voluto entrare in seminario a Brescia, imponendosi una severa disciplina spirituale, vergata nei suoi numerosi "regolamenti spirituali", che egli chiamava "Orari" per trasfigurare tutto in preghiera e vita interiore. Così era diventato sacerdote, ma continuava a ridefinire i suoi "orari", in un'ansia di formidabile interiorità, che troverà il suo appagamento soltanto quando il giorno 16 aprile 1874 don Giovanni, trentenne, con il consenso della mamma e del suo vescovo, salirà al convento dell'Annunciata e inizierà l'anno di noviziato cappuccino col nuovo nome di fra Innocenzo da Berzo. La sua biografia cappuccina è di una sconcertante semplicità. Dopo la prima professione del 29 aprile 1875 è destinato al convento di Albino. Vi rimane solo un anno e poi ritorna all'Annunciata dove emette la professione solenne il 2 maggio 1878 e viene nominato vicemaestro dei novizi. L'incarico dura poco. Trasferito il noviziato a Lovere nel novembre 1879, egli è lasciato senza nessun incarico all'Annunziata.

Il dottissimo ministro provinciale, amico di Rosmini, p. Agostino da Crema, lo chiama a Milano in ottobre 1880 a far parte del gruppo redazionale della nota rivista Annali Francescani. Pochi mesi dopo, in febbraio 1881, è mandato per supplenza al convento dei Sabbioni di Crema e a giugno ritorna alla sua solitudine dell'Annunziata. Superiori e confratelli si dovettero lasciar convincere dai ripetuti insuccessi ad abbandonarlo al suo isolamento e a rispettarne il segreto; alcuni ebbero l'impressione che soffrisse di un complesso di inferiorità e ne provarono devota commiserazione. In realtà egli non fece nessun sforzo per evadere dal sentimento della propria incapacità, anzi vi s'ingolfava sempre piú. L'unico slancio esteriore in cui perseverò fu quello di dare quanto gli capitava sottomano ai poveri, quelli veramente indigenti e quelli che ne sfruttavano l'ingenua bontà. Spesso tornava sereno e soddisfatto dalla questua con la bisaccia vuota, perché nel giro di raccolta aveva resa concreta e reale l'immagine di fra Galdino, del mare, cioè, che riceve acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi.

I superiori alla fine, nell'autunno del 1889, gli affidarono la predicazione degli esercizi spirituali nei principali conventi: a Milano-Monforte, ad Albino, a Bergamo, a Brescia. Riuscirà a terminare solo i primi due, che gli costeranno uno sforzo tale da sconvolgergli l'animo e da compromettergli seriamente la salute già minata, affrettandone la fine, Infatti, mentre predica ad Albino si ammala gravemente e il 3 marzo 1890 spira all'infermeria di Bergamo. Questa altalena di promozioni e di rimozioni è come un'antitesi che imprime alla biografia esteriore del beato Innocenzo da Berzo e al suo segreto interiore l'attrazione del mistero e il ritmo di un dramma sacro.

Padre Innocenzo voleva solo servire e stare all'ultimo posto: "si era persino fatto curvo nella persona, si ritirava in un angolo quasi desiderasse scomparire". Nel suo quaderno scriveva: "Avrò gran desiderio d'essere soggetto a tutti e in orrore l'esser preferito al minimo. Son trattato anche troppo bene. Meriterei ben altro io, che ho così tanti debiti con il Signore". Questo atteggiamento gli causava molte umiliazioni. I frati non andavano troppo per il sottile e spesso lo strapazzavano, soprattutto per le sue interminabili messe che superavano il solito orario e anche gli strattoni alla pianeta per avvertirlo servivano a poco. Egli era come inghiottito dallo Spirito Santo e le sue giaculatorie e i suoi silenzi meditativi duravano a lungo. La sua sete d'espiazione gli faceva inventare mille maniere per soffrire e umiliarsi ed aveva sempre preparata la sua risposta serena, anche faceta, pronto a ridere della propria imperizia. I sacerdoti della Valle Camonica ricorrevano a lui per consiglio ed egli sapeva risolvere con precisione di dottrina e intuizione profonda ogni caso intricato. Ma la sua "astuzia" lo faceva apparire un inetto. Un desiderio immenso di purificazione e di preghiera era un suo tentativo di rispondere all'Amore che non è amato, e un crudele tormento che si riflette anche nei suoi tratti somatici lo accompagna: il male del peccato. Chiede al teologo ufficiale della provincia "se il peccato veniale può recare a Dio una offesa infinita" e trema al solo pensiero di poter commettere il minimo difetto.

Il suo punto d'attrazione è il tabernacolo. Qui, davanti all'Eucarestia, trova ogni suo bene. Le preghiere della comunità non gli bastavano. Le giornate non erano sufficienti. Incaricato di spolverare i banchi, non finiva mai e spolverava e rispolverava. Quando gli altri finivano, egli continuava. Gli avevano imposto di uscire di chiesa come gli altri. Egli obbediva, ma come una colomba gemebonda girava rasente il perimetro delle mura e se la porta era socchiusa si fermava estatico. Scoperto un usciolo che dalla biblioteca del convento dava sulla chiesa, da quel momento era sempre in biblioteca a studiare. Ma i libri restavano aperti. Egli era assorbito nelle misteriose intimità eucaristiche. Ormai era un'attrazione irresistibile e, anche a livello fisico, non poteva più vivere lontano dal tabernacolo. E passando le notti nel silenzio adorante, come fece una volta nella chiesa di Ossimo, dove era stato a confessare, il suo volto diventava bello, disteso e radioso. Così l'aveva ritrovato il parroco al mattino, quando venne ad aprire la porta della chiesa.

Con l'Eucarestia la croce, il Crocefisso. Lo meditava continuamente e moltiplicava fino a otto e dieci volte al giorno l'esercizio della Via Crucis, piangendo e gemendo. Ne era diventato apostolo. "Quando si vedeva qualcuno occupato in fare la Via Crucis - depose un teste - i frati dicevano che si era confessato da P. Innocenzo".

Scrive Ilarino da Milano: "Anche se il suo temperamento era quello accentuato di un timido e la sua tendenza volontaristica lo trascinava alla remissività, alla sottomissione, a tirarsi sempre in disparte e a rimanere in un angolo, tanto più colpisce, come un paradosso, il fatto che l'azione divina trasformante non solo non elimini questa inclinazione psicologica alla piccolezza e questa convinzione di parvità, ma se ne serva magnificamente per trasformarle in esercizio di virtù eroiche e in uno stato mistico".

Giovanni XXIII, che lo proclamò beato il 12 novembre 1961 lo definì: "Un santo moderno, un santo per il nostro tempo". Ma qual è il segreto della sua vita semplicissima? Questa "modernità" di santità è difficile a spiegare. Innocenzo, secondo le parole di Paolo VI, "dicono i biografi che teneva la testa bassa e difficilmente si poteva perfin vedere il suo sguardo. Ma se guardiamo la realtà di quest'anima, dobbiamo dire che teneva gli occhi in alto, perché davvero la sua gravitazione - per noi è la terra, per lui era, piuttosto che gravitazione, levitazione - era il cielo". Egli è un santo che sfugge, che si nasconde, tormentato dall'ansia dell'introversione mistica, che si costruisce togliendo, scartando, distruggendo e così scopre un vuoto sempre più assoluto, sempre più voluto e ricercato, un "amoroso nulla", come la scrittrice Curzia Ferrari intitola la sua splendida rilettura biografica del beato, per una pienezza di amore divino. Tolto tutto, può dire in verità, come san Francesco: "Mio Dio e mio tutto!". È questo il segreto profondo del "Fratino di Berzo", come già aveva intuito la gente semplice della valle, chiamandolo appunto così.

 

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