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Si è svolto nei giorni scorsi a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, il Congresso internazionale sul tema “L’uomo dell’età moderna e la Chiesa”. Filosofi, teologi, storici, provenienti da atenei di diverse nazioni, si sono confrontati sul tema della Modernità quale momento irrinunciabile per la comprensione delle sfide poste al pensiero contemporaneo. Il Congresso ha anche ospitato un concerto dedicato alla musica di ambiente gesuitico del 1600 e 1700, oltre a una mostra promossa dall’Archivio Storico della Gregoriana, con documenti inediti che testimoniano l’attività accademica del Collegio Romano attraverso cinque secoli. L'incontro si è concluso con un intervento del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Il servizio di Claudia Di Lorenzi.

Sono le grandi religioni, e in particolare il cristianesimo, a dare soluzione alla crisi costitutiva della modernità. Ad ancorare ad una dimensione trascendente l’incertezza del vivere quotidiano, frammentato di fronte allo scorrere del tempo e all’erosione di legami e certezze. Con questa lettura, si conclude il Congresso promosso dalla Pontificia Università Gregoriana sul tema “L’uomo dell’età moderna e la Chiesa”. Il cardinale Gianfranco Ravasi, chiamato ad offrire una sintesi dei lavori, evidenzia la fragilità dell’epoca moderna:
“La modernità forse si può spiegare proprio risalendo all’origine di questa parola che deriva da un avverbio latino ‘modo’ che vuol dire ‘ora’. Quindi, riguarda soprattutto l’attenzione al presente e il presente, di sua natura, ci sfugge dalle mani appena l’abbiamo pronunciato. L’‘oggi’ diventa già ‘domani’ appena noi l’abbiamo attraversato. Per questo, la modernità molto spesso è contrassegnata dall’insicurezza, dall’instabilità, dalla relatività”.

Un’epoca generosa sotto il profilo della produzione filosofica, letteraria e scientifica, che pure vede germogliare in sé i semi di una profonda crisi della cultura. Ancora il cardinale Ravasi:

“In senso tecnico, la modernità comincia nel 1600 con – da una parte – la figura di Cartesio che pone il problema dell’‘io’, che pensa e che diventa in certo modo la rappresentazione dell’uomo moderno, il quale si affaccia con la sua identità quasi producendo la verità da se stesso. Dall’altra parte, le figure di Galileo e di Newton, cioè l’ingresso della scienza con il proprio protocollo, con la propria autonomia rispetto alla teologia. Questi sono i due grandi momenti che genereranno grandi deviazioni – anche l’‘io’ che diventa dominio esclusivo di tutto l’essere – e dall’altra parte la scienza che può degenerare ma che è anche segno di grandi conquiste”.

Una crisi che raggiunge l’apice nell’epoca successiva, la "postmodernità", che pure mostra all’uomo il senso della sua condizione:

“L’età contemporanea è definita come ‘postmoderna’. Vuol dire ‘degenerazione’ della modernità, però vuol dire anche una grande occasione per mostrare, in questa fluidità assoluta – la liquidità dei sentimenti, della realtà, delle emozioni – l’apertura verso una stabilità che le religioni, soprattutto il cristianesimo, hanno il compito di mostrare ininterrottamente”.
Ed è in questa chiave – conclude il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura – che la modernità si fa paradigma della condizione umana che, fragile e insufficiente, trova compiutezza nell’Assoluto:

“La modernità ci insegna che siamo continuamente in un flusso, come un fiume, ma questo fiume non ha come destino il baratro del nulla, del non senso, ma ha invece la possibilità di ritrovare quell’inizio e quella fine che spiegano la realtà stessa. E’ il grande insegnamento delle religioni, le quali hanno lo scopo di indicare una meta autentica”. (gf)

 

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