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A fra Michele Bergamasco Urbano VIII affidò la responsabilità diretta di una lunga serie di opere

di FELICE ACCROCCA

Un recentissimo e ricco volume di Carla Benocci porta alla luce — con una ricchezza invidiabile di documenti inediti — l’attività di fra’ Michele Bergamasco, un frate cappuccino morto nel 1641 che fu architetto nella Roma barocca e condivise la sua straordinaria genialità con una nota serie di artisti lombardi da Borromini, a Castelli, a Fontana (Un architetto cappuccino nella Roma barocca. Fra Michele Bergamasco, Roma, Istituto Storico dei cappuccini, 2014, pagine 450, euro 35).

Una delle tante figure, quella di fra’ Michele, spesso trascurate dalla grande storia, che hanno contribuito a rendere ancor più bella una città straordinaria, nella quale non sempre è stato riconosciuto il ruolo che gli uomini di Chiesa (preti o frati che fossero) hanno esercitato nella poesia e nell’arte.

Un solo esempio, tra i tanti possibili, ma certo significativo. Dopo che, nel 1878, il Comune di Roma promosse l’iniziativa di erigere un mausoleo alla memoria di Vittorio Emanuele II, seguirono una serie di concorsi d’idee e di progetti per la costruzione del Vittoriano e del museo del Risorgimento: ne uscì vincitore Giuseppe Sacconi, con un progetto che alla fine riuscì a imporsi nonostante vivaci opposizioni (negativo fu infatti il parere della Commissione Archeologica e contrari alle demolizioni si dichiararono il sindaco e la giunta comunale) e che prevedeva la demolizione del convento dell’Aracoeli e del quartiere di San Marco.

Tutto si consumò in un forte clima polemico: a Ruggero Bonghi, che in Parlamento condannò l’operazione con toni accesi («Voi fate un’opera da vandali»), rispose secco De Pretis, secondo cui non valeva la pena preoccuparsi per «quel rudere che è il convento di Aracoeli, dove non vi è nulla di artistico, nessuna memoria che meriti di essere conservata». Stessi toni compaiono nella relazione generale sullo stato del complesso dell’Aracoeli fatta redigere dal Governo italiano, dove si legge: «Tanta e così grande povertà di storia e di pregi artistici » degli edifici non può spiegarsi «se non col fatto di essere stata occupata fin dal IX secolo questa vetta e le sue appendici da ordini religiosi» (cfr. Marianna Brancia di Apricena, Il complesso dell’Aracoeli sul colle capitolino [IX-XIX secolo], Roma 2000).

L’appartenenza a un ordine religioso comportava dunque, in quel clima così ideologicamente connotato, anche l’accusa di un’irrimediabile povertà di gusto artistico. Chissà cosa direbbero ora gli estensori di quella relazione governativa, potendo sfogliare il volume di Carla Benocci?

Non tutte le fasi della vita di fra’ Michele Bergamaso sono purtroppo egualmente documentate; è molto probabile però che egli solo dopo una prima esperienza lavorativa entrasse tra i cappuccini romani, tra i quali c’erano altri architetti prima di lui, come Francesco da Bergamo, e altri ancora lo seguiranno.

La sua attività di costruttore all’interno dell’Ordine cappuccino, che allora aveva avviato un’intensa fase di risistemazione delle proprie strutture, è nota per gli interventi su tanti conventi, dalla prima decade del Seicento fino all’anno della morte.

Ben presto egli venne a contatto con il cardinale Maffeo Barberini, poi Papa Urbano VIII, che nel 1631 lo nominò architetto pontificio con responsabilità diretta e decisiva su una lunga serie di opere, da Castel Sant’Angelo, alle torri «della spiaggia romana », alle mura di Nettuno, al palazzo e giardini del Quirinale, al palazzo della Rocca di Castel Gandolfo, con giardini, piazza, strade alberate, al Palazzo Vaticano, con giardini e annessi, alla fontana di Piazza San Pietro, a Villa Giulia, a ponte Sisto, a ponte Milvio, ai palazzi Barberini di Monterotondo e di Palestrina, a Santa Maria ad Martyres o della Rotonda, a Santa Bibiana, San Caio, San Sebastiano al Palatino, Santi Pietro e Marcellino ad duas lauros, Santi Cosma e Damiano, giardino di Sant’Agnese, Sant’Anastasia, monastero di Santa Caterina della Rosa, Collegio dei Neofiti a Santa Maria ai Monti, chiesa e convento di Santa Maria di Galloro ad Ariccia, Santa Maria del Pozzo, santuario del Santissimo Crocifisso a Nemi, Immacolata Concezione ad Albano, fino al grande convento dell’Immacolata Concezione, voluto dal cardinale Antonio Barberini, cappuccino e fratello del Papa. In tutte le sue opere ha lasciato l’impronta severa della spiritualità cappuccina a segnare una linea del barocco.

A fra’ Michele faceva capo anche la valutazione di materiali, lavorazioni, quadri e altri oggetti. La responsabilità diretta e ultima del frate risulta dall’esame sistematico di una lunga serie di registri camerali, dove, accanto a dichiarazioni esplicite del suo intervento, la sua firma appare all’ultimo posto, seguita solo da quella dell’arcivescovo Fabio Poli, che eseguiva i pagamenti a nome di un Papa esigente in materia come pochi.

La paziente ricerca archivistica di Carla Benocci, storica dell’arte e funzionaria della sovrintendenza del Comune di Roma per le ville storiche, con al proprio attivo una lunga serie di pubblicazioni in materia, ha permesso di scoprire e valutare appieno la funzione di fra’ Michele da Bergamo, finora non adeguatamente compresa perché il suo nome non appare per pagamenti fatti direttamente a lui, visto che, da fedele cappuccino, lavorava gratuitamente.

Il libro, ricco di una preziosa serie d’immagini dei luoghi e degli edifici dove il nostro architetto ha lavorato, consente di osservare la cura apposta da fra’ Michele non solo alle “fabbriche”, ma anche ai giardini, ai quali dedica particolare attenzione. Fu ancora il frate a completare «le opere edilizie e decorative della trasformazione barberiniana del Pantheon», trovando poi il modo di riutilizzare alcuni dei materiali impiegati per l’occasione nel grande convento cappuccino (allora in fase di costruzione) della Santissima Concezione (via Veneto), come risulta dagli Annali della Provincia, nei quali si attesta che furono utilizzati «molti travi di abete avanzati al porticale della chiesa della Rotonda, quando per ordine di sua Santità ne furono levati i travi di bronzo, o metallo per applicarli in opere di maggior considerazione ».

Fra’ Michele chiuse la sua operosa giornata terrena il primo giorno dell’anno 1641, non senza dispiaceri che egli, francescanamente, visse nel silenzio. Un silenzio da cui per secoli è stata coperta anche la sua persona, squarciato ora da questo bel libro. www.osservatoreromano.it

 

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