Personaggi - santi

San Serafino da Montegranaro (1540-1604)

Frate laico, Serafino ebbe a soffrire per le incomprensioni dei confratelli e, nello stesso tempo, fece rivivere l’atmosfera dei “Fioretti” di san Francesco con il suo amore per le creature e per la delicatezza della sua carità. La nostra stampa compendia alcune caratteristiche esterne e mistiche della sua esistenza (Flores II, 722-755).

  • 1540: Felice (Serafino) nasce a Montegranaro
  • 1558: a diciotto anni, entra nel noviziato cappuccino di Jesi, nel primitivo convento presso Tobano e l’anno successivo emette la professione religiosa nel 1559. Nei 64 anni della sua vita abita nei vari luoghi della Provincia, ma non è possibile stabilire con precisione una cronologia. Il convento di Ascoli Piceno è il posto dove vive più a lungo
  • 1604, 12 ottobre: muore ad Ascoli Piceno
  • 1626-1632: la causa viene presto iniziata e conclusa ad Ascoli
  • 1729, 18 luglio: viene beatificato da papa Benedetto XIII
  • 1767, 16 luglio: Clemente XIII lo include nell'albo dei santi.

Via, state cheto, state cheto, santino, perché non sono stato io, ma è stato questo Cristo e la tua fede che ti ha guarito! (E a chi lo mortificava): Ah, santino, santino, ti sia dato un pan bianco. Foss'io degno del purgatorio! Io son peccatore. Non ho nulla: ho soltanto il crocifisso e la corona; ma con questi spero di giovare ai frati e di farmi santo! (s. Serafino da Montegranaro)

Nella liturgia viene ricordato il 12 ottobre

Pietro Gaia (+ 1620) e Paolo Mussini (+ 1918): due artisti attratti dalla santità del santo

"MIRACOLI DI UN'AMABILE UMANITÀ"

"La Provincia della Marca d'Ancona fu anticamente, a modo che il cielo di stelle, adornata di santi ed esemplari frati, i quali, a modo che luminari del cielo, hanno illuminato e adornato l'Ordine di santo Francesco e il mondo con essempi e con dottrina". Così parlano i Fioretti con il profumo della loro poesia. Zaccaria Boverio da Saluzzo nei suoi Annali, quasi facendo eco e continuando, scrive che "dalla provincia della Marca ci spunta adesso una stella fra le più risplendenti della religione, ed è fra Serafino da Montegranaro". Questo splendore di santità viene rivelato e interpretato da diverse testimonianze raccolte fin dal 1610 e confluite sia negli atti del processo ordinario informativo concluso nel 1624, sia, con l'intervento del card. Madruzzi di Trento nel 1625, nel processo apostolico protratto fino al 1632.

È una santità che si riallaccia, ancora una volta con meravigliosa sintonia, a quella del pioniere dei santi fratelli laici cappuccini: Felice da Cantalice. Infatti presenta molte analogie facilmente riscontrabili anche dal lettore più sprovveduto, e diventa, nello stesso tempo, un'espressione pittoresca della genuina vita cappuccina nella sua caratteristica tradizione spirituale marchigiana. Serafino da Montegranaro, infatti, non varcò i confini delle Marche.

Nato a Montegranaro verso il 1540, secondo di quattro figli e battezzato con il nome di Felice, gracile di salute fu mandato presto dal padre, muratore, ad aiutare un contadino che gli affidò il gregge. Nel silenzio della campagna imparò la bellezza del raccoglimento e della preghiera, tanto che si raccontano diversi fatti prodigiosi accaduti durante la sua fanciullezza. Morto il padre, il fratello maggiore, che aveva assunto tutto il lavoro di muratore, lo richiamò a casa per farne almeno un manovale, ma Felice era assolutamente inadatto a quel mestiere, tanto che doveva sorbire continuamente rimbrotti e percosse dell'irascibile fratello.

Egli si sentiva chiamato ad una vita di penitenza, di deserto, come aveva sentito leggere nella vita degli eremiti. Manifestando un giorno ad una pia giovane di Loro Piceno questi suoi desideri, essa gli parlò dei cappuccini e della loro spiritualità adatta a colmare le sue brame. A questa proposta rispose con entusiasmo: immediatamente si presentò al convento di Tolentino e, anche se non venne subito accolto, come sperava, comprese che quella era la sua vita. Entrato finalmente nel noviziato a Jesi, nel primitivo convento presso Tabano, nella vestizione ricevette il nome di Serafino. E qui emise la sua professione religiosa.

Nei suoi 64 anni di vita abitò in vari luoghi della Provincia, a Loro Piceno, Corinaldo, Ostra, Ancona, S. Elpidio a Mare, Ripatransone, Filottrano, Potenza Picena, Civitanova e particolarmente a Montolmo (Corridonia), ma soprattutto ad Ascoli Piceno, dove rimase più a lungo che altrove e dove incontrò sorella morte il 12 ottobre 1604. Ascoli è la sua città di adozione, luogo privilegiato della sua santità. Per questo non poche volte fra Serafino è detto di Ascoli. E anche le più valide e numerose testimonianze provengono da frati e cittadini di quella città. Costoro hanno verificato e conservato meglio il profumo della sua santità.

Ma la cronologia di queste e altre brevi o più lunghe dimore è difficilmente ricostruibile. Le testimonianze processuali, molto vivaci, sono carenti di dati cronologici precisi. Si conosce però un segreto, rivelato per obbedienza dallo stesso santo fratello, e riportato in una deposizione processuale da p. Angelo da Macerata nel 1627. Si trovava nel convento di Civitanova e c'era sempre un grande afflusso di gente che cercava fra Serafino. Il superiore costrinse il santo fratello a rivelare "con che mezzi aveva acquistata tanta perfezione". Allora - si legge nel processo - "raccontò come lui, essendo persona inabile ad ogni esercizio, si meravigliava grandemente d'essere stato ricevuto nella religione, e poi ammesso alla professione. Poco dopo fu levato di noviziato e poi mandato a luogo di professo, dove vi era un guardiano che voleva che le cose del convento andassero per ordine e in modo che i sacerdoti fossero serviti dai laici, conforme all'istituto nostro. Fra Serafino disse come lui era inabile in tutti gli esercizi, che in qualsiasi cosa lo metteva, non faceva cosa a proposito, e perciò il padre guardiano gli dava delle penitenze e mortificazioni assai, alle quali si aggiunse particolare tentazione del demonio che ridusse in tante angustie esso fra Serafino che pensava uscire dalla religione. E un giorno particolare si mise a fare orazione in chiesa avanti il santissimo Sacramento e in essa fece un lamento grande col Signore, dicendo: - Signore, questi frati hanno pur visto la vita mia. Se io non ero atto alla professione, non mi dovevano ammettere, ma giacché mi hanno ammesso, perché mi travagliano con tante mortificazioni? -. Allora sentì una voce dal santissimo Sacramento che gli disse: - Fra Serafino, non è questa la strada di servire a me che ho patito tanto per la redenzione del genere umano? -. Dalla qual voce restò fra Serafino grandemente atterrito, e aiutato dallo Spirito Santo cominciò ad entrare in se stesso e si propose per vincersi che, ogni volta che gli fosse fatto o detto qualche cosa contraria al senso suo, gli voleva dire, come in effetto gli diceva, una corona della Madonna, della quale era devotissimo. Dopo di essersi esercitato un tempo in tale orazione, orando una volta similmente avanti il santissimo Sacramento, sentì un'altra volta questa voce: - Fra Serafino, giacché per amor mio hai vinto e mortificato te stesso, domandami pure che grazia che tu vuoi, che da me la riceverai -".

Questo rinnegamento e annientamento di sé è il segreto della sua santità. Le grazie ricevute infatti furono così sovrabbondanti che un padre guardiano gli comandò di smetterla con tanti prodigi. I miracoli fiorivano come per incanto attorno all'umile e semplice frate. Gli atti dei processi sono elenchi ininterrotti di prodigi. Bastava un bacio al suo mantello, una carezza delle sue mani, addirittura l'invocazione del suo nome perché malattie ostinate scomparissero e casi disperati si risolvessero. Tutto, nelle sue mani - scrivono i moderni biografi - diventava prodigioso: pane, arance, erba, grano, lattuga, e specialmente la corona, fatta di canna di finocchio e pezzi di zucca. La gente aveva più fiducia in quella che in tutti i medici della città.

Due aspetti esterni, sempre osservati, che formano un tutt'uno con la sua figura, sono il piccolo Crocifisso d'ottone e la corona in mano. È l'iconografia tradizionale di Serafino da Montegranaro. La sua devozione al Crocifisso e alla Vergine è sapienziale, ridonda di sapienza celeste che qualche volta lasciava stupiti i dotti e i teologi. Il Crocifisso lo teneva sempre in mano e lo offriva al bacio di tutti: un abile sotterfugio per evitare che gli baciassero la mano o la tonaca. È un uomo tutto umile e umiliato ("vezzo" dello stile marchigiano e cappuccino), ma sempre gioioso e spiritualmente luminoso.

Perfetto osservante della regola della povertà e totalmente conformato alla spiritualità penitenziale, contemplativa e apostolica delle costituzioni dell'Ordine, aveva saputo trasformare la chiesa nella sua cella, perché abitualmente stava più in chiesa, soprattutto di notte, che in cella. E se qualcuno lo spiava ed egli se ne accorgeva, allora fingeva di dormire rumorosamente: "O santino - rispondeva celiando a chi gli faceva notare l'irriverenza - io dormo più in chiesa che in refettorio".

Era letteralmente assetato di messe, di Eucaristia, di sacramenti, di preghiera, di patimenti. Innamorato dei misteri di Cristo e della Madonna, si incantava a meditarli e si estasiava. Avrebbe desiderato di essere posto di famiglia a Loreto o a Roma per poter servire molte messe ogni giorno. Da qui il suo zelo per collaborare con Cristo a salvare le anime, le sue piccole e penetranti esortazioni spirituali, il suo fruttuosissimo apostolato vocazionale, la sua venerazione verso i sacerdoti, la sua compassione per gli ammalati e tribolati e poveri, il suo coraggioso impegno di pacificazione sociale e familiare, il suo ardore missionario e desiderio del martirio. Quasi analfabeta sapeva parlare con straordinaria competenza e unzione delle cose di Dio e quando veniva costretto per obbedienza a sermoneggiare in refettorio, le sue parole che, magari commentavano il salmo Qui habitat in adiutorio Altissimi, o la sequenza Stabat mater dolorosa, si caricavano di commozione che faceva piangere tutti.

La gente che l'ha conosciuto, lo ha presentato con tratti veristici e fotografici: "Aveva barba e capelli sempre arruffati... li puzzava grandemente il fiato... la tonaca, piena di pezze, li calava sempre dalla parte sinistra et li si vedeva il cilicio... il collo era sempre rosso et pieno di bruciori o velluchetti... non voleva assolutamente che li si toccasse le spalle... amava grandemente li fiori et li putti (fanciulli)". È un fatto che i bambini sono sempre stati privilegiati da questi santi così umani e umili. E saranno proprio "li putti" a segnalare con il loro grido alla città di Ascoli la morte di fra Serafino avvenuta sul primo pomeriggio del 12 ottobre 1604: "È morto il santo! È morto il santo!".

 

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