Personaggi - santi

San Crispino da Viterbo (1668-1750)
San Crispino Fioretti da Viterbo riunisce in sé l’ascetismo e la gioia esuberante di una persona innamorata di Dio e del prossimo. L’insieme iconico lo raffigura con il bastone del frate cercatore. Sulla destra si illustra un’altra funzione tra i suoi servizi in convento: il servizio agli infermi (esercitò pure i lavori di ortolano e cuoco).

  • 1668, 13 novembre: nasce a Viterbo Pietro Fioretti (Crispino). Fino all'età di 25 anni rimane nella bottega dello zio calzolaio
  • 1693, 22 luglio: veste l'abito cappuccino nel convento della Palanzana di Viterbo come fratello laico
  • 1694, 22 luglio: emette la professione dei voti
  • 1694-1697 aprile: risiede nel convento di Tolfa
  • 1697: va a Roma per qualche mese
  • 1697-1703 aprile: dimora ad Albano
  • 1703-1709 ottobre: abita nel convento di Monterotondo
  • 1709-1710 gennaio: è ortolano a Orvieto
  • 1710-1748: è questuante a Orvieto (eccetto alcuni brevi cambiamenti)
  • 1715 ultimi mesi: sosta brevemente a Bassano
  • 1744: da metà maggio alla fine di ottobre è a Roma
  • 1748, 13 maggio: viene ricoverato presso l'infermeria di Roma
  • 1750, 19 maggio: muore durante questo anno santo, alle ore 14,30
  • 1755-1757: stante la fama di santità viene istruito il processo informativo a Orvieto e a Roma
  • 1806, 7 settembre: viene beatificato da papa Pio VII
  • 1982, 20 giugno: Giovanni Paolo II lo dichiara santo (il primo canonizzato da questo papa)

Nella liturgia viene ricordato il 20 giugno

 

AFORISMI DELLA LETIZIA FRANCESCANA

Crispino nacque a Viterbo, nella contrada detta del Bottarone, il 13 novembre 1668; fu battezzato il 15 dello stesso mese nella chiesa di S. Giovanni Battista con il nome di Pietro. Dall'atto di battesimo vengono fuori anche i nomi della mamma, Marzia, del padre, Ubaldo Fioretti, e del padrino, Angelo Martinelli. Ubaldo, che aveva sposato Marzia già vedova con una figlia, era un artigiano e uscirà presto dalla scena, lasciando Pietro orfano in ancor tenera età, e Marzia vedova per la seconda volta. Il suo posto sarà preso dal fratello. Francesco, un calzolaio a lui molto affezionato e che al nipotino fece frequentare le scuole dei gesuiti, e lo accolse come apprendista nella sua bottega di calzolaio.

Pietro rivestí l'abito cappuccino il 22 luglio 1693, giorno della Maddalena, assumendo il nome con cui è conosciuto nella storia della santità: Crispino da Viterbo, e al compiersi dell'anno della prova, il 22 luglio 1694, fu trasferito a Tolfa, dove rimase quasi tre anni, fino al mese di aprile del 1697. Passato a Roma, vi sostò appena qualche mese; dal 1697 fino all'aprile 1703 dimorò ad Albano, di dove passò a Monterotondo; qui rimase quasi ininterrottamente per oltre un sessennio, fino all'ottobre 1709; si recò quindi ad Orvieto, dove fu ortolano fino al mese di gennaio del 1710, quando cominciò ad esercitare l'ufficio di questuante. Cominciavano cosí i quasi quarant'anni di vita orvietana, interrotti da una breve permanenza a Bassano (ultimi mesi del 1715) e a Roma (metà maggio - fine ottobre 1744). Finalmente, il 13 maggio 1748, vi fu la partenza definitiva per l'infermeria di Roma, dove morirà il 19 maggio 1750.

Fra Crispino fu beatificato il 7 settembre 1806 e, finalmente, canonizzato il 20 giugno 1982.

In un profilo biografico di fra Crispino da Viterbo rimarrebbe una incolmabile lacuna se non si accennasse ai suoi aforismi: detti, sentenze, massime, riflessioni o esclamazioni in cui egli, da autentico maestro, sapeva condensare il succo delle sue convinzioni piú profonde e dei suoi sentimenti. Uomo riflessivo e cortese, aveva il gusto delle similitudini e delle immagini. Soprattutto, sapeva trovare parole e modi giusti, quando si trattava di "avvertire" gente di qualsiasi condizione. Lo notò con felice intuito il fratello laico Domenico da Canepina, di 43 anni, che ai processi depose: "Nel dare li suoi santi avvertimenti, costumava una maniera dolce e cortese, mostrando di santamente scherzare, e indirizzando il discorso quasi ad una terza persona per meglio venire con prudenza al suo intento...".

Alcuni degli aforismi di fra Crispino seguitarono ad essere ripetuti a lungo. Ne fan fede non solo i processi canonici dove sono riferiti in gran numero, ma capitava anche di sentirli citare per le vie e nelle case, tanto è vero che un cappuccino, p. Giuseppe Antonio dalla Valtellina, predicando la quaresima nei castelli dell'Orvietano (Sugano, Torre, Sala e S. Venanzio), credette opportuno commentare "detti e massime" di fra Crispino, e la gente accorreva per sentirli ripetere, anche perché era convinta della loro efficacia.

Ne citeremo alcuni anche qui, senza la pretesa di esser completi o di inquadrarli nel contesto in cui furon detti, cosa che richiederebbe troppo spazio. Spesso, alzando gli occhi al cielo, fra Crispino esclamava: "Oh, bontà divina!". Oppure, invitando ad ammirare il creato, diceva: "Che grande Iddio, che grande Iddio!". Spesso gemeva: "Oh Signore, perché tutto il mondo non vi conosce e non vi ama ?"; ed esortava: "Amiamo questo Iddio perché lo merita"; "Ama Dio e non fallire, fa pur bene e lascia dire"; ammoniva i mercanti: "Avvertite, non fate il Meo, ché Iddio ci vede". E ancora: "Chi non ama Dio è matto"; "Chi ama Dio con purità di cuore, vive felice e poi contento muore "; "Chi fa la volontà del Signore, mai gli accade cosa alcuna in contrario".

In tempo di grave carestia, esortava cosí alla fiducia nella divina Provvidenza: "Poni in Dio la tua speranza, ché averai ogni abbondanza"; "La divina Provvidenza piú di noi assai ci pensa"; nella stessa occasione, a chi domandava come avrebbe provveduto alle necessità del convento, dove la famiglia si era accresciuta di sette studenti, fra Crispino rispondeva "che non ci pensava niente, ma che aveva tre gran proveditori", cioè Dio, la Madonna e san Francesco.
Sentendo suonare la campana per la preghiera, si licenziava con dire che "lo chiamava il suo Signor Padre "; e a fra Francesco Antonio da Viterbo dichiarò: "Paesano, quanto facciamo, tutto l'abbiamo da operare per amor di Dio... Io non alzerei neppure una paglia che non fosse per la gloria del Signore"; facendo altrimenti, "sarebbe stato martire del demonio".

Frequentissime, sulla lingua di fra Crispino, erano "le sue sante massime" sulla Madonna, che chiamava "la mia Signora Madre": "Chi è devoto di Maria santissima non si puol perdere"; "Chi ama la Madre e gl'offende il Figlio, è un finto amatore"; "Chi offende il Figlio non ama la Madre"; "Non è vero devoto di Maria chi disgusta il suo divin Figliuolo coll'offese". E insegnava a ripetere: "Maria santissima, siatemi luce e scorta particolarmente nel punto della mia morte". Quando veniva sollecitato a pregare la Madonna per casi gravi (ordinariamente si chiedevano miracoli) egli diceva: "Lasciami parlare un poco con la mia Signora Madre, e poi ritorna"; oppure: "Mandarò un memoriale alla mia Signora Madre, e poi ne vedremo il rescritto"; e non sempre il rescritto era quale lo si sarebbe voluto, come nel caso di Francesco Laschi, al quale disse: "La mia Signora Madre non ha sottoscritto il memoriale da me porto per la salute di tuo figlio".

Sono molto numerosi i detti riguardanti i novissimi. Fra Crispino compie ogni atto alla luce dell'eternità che l'attende, e vuole che nessuno perda di vista questa realtà, gioiosa oppure terribile, a seconda di come si sarà vissuto. A suor Maria Costanza annunzia la prossima, imprevedibile fine con le parole "Chi nasce, muore". A chi era attaccato alle vanità del mondo, ricordava: "Ogni giorno ne passa uno". Incoraggiava malati e tribolati con dire: "Il patire è breve, ma il godere è eterno ", oppure: "Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto ", "Iddio me l'ha data, Iddio me la leverà: sia fatta la sua santissima volontà". A chi lo compassionava per le sue sofferenze, rispondeva allegramente: "Quando vuoi patire per amor di Dio, quando sei morto? ", oppure: "Eh, che volemo aspettare a patire quando siamo nel pilozzo? ", e per "pilozzo" intendeva la fossa nel cimitero. Piú spesso ammoniva: "In paradiso non si va in carrozza ", "Il paradiso non è fatto per li poltroni ", "In paradiso non ci si va colle pianelle".

Il pensiero dell'inferno gli faceva sovente esclamare: "Oh eternità, oh eternità ", anche se era convinto che "si dura piú fatica per andare all'inferno che per acquistare il santo paradiso colle sante operazioni"; ed aggiungeva: "La morte è una scuola da far mettere giudizio a quanti matti s'attaccano al mondo". E lui, i matti che incontrava, li aiutava a mettere giudizio in tempo. Ai mercanti diceva: "Avvertite che Dio vede il contratto e la mercede"; a un tale che. stava dirigendosi verso certe case, disse: "È tempo di mutar strada, se vuoi mutar fortuna per il cielo e per la terra". E ancora ammoniva: "Le cose mondane non conducono a Dio"; "Chi è interessato, è dannato". Ma piú spesso cercava di infondere sentimenti di fiducia: cosí, a coloro che gli chiedevano se si sarebbero salvati, "prontamente rispondeva che, se avessero avuta speranza di salvarsi, si sarebbero salvati"; "insinuava sempre che la misericordia di Dio era infinita"; "La misericordia di Dio, signora, è grande. Si liberi dalla cattiva pratica con una buona confessione"; "La potenza di Dio ci crea, la sapienza ci governa, la misericordia ci salva". Alla signora Paola Schiavetti, angosciata da scrupoli, rispose: "Quando l'uomo fa dal canto suo tutto ciò che sa e puole, nel restante deve gettarsi nel mare delle misericordie di Dio".

Particolarmente numerosi sono pure i detti di fra Crispino circa la vita religiosa tra i cappuccini, a proposito della quale esclama: "Oh quanto siamo obbligati al Signore, che ci ha chiamati alla santa religione". In essa egli serví portando bisaccia e fiasche, che erano "la sua croce ", "ma quanto era maggiore quella di Cristo !". Piú d'una volta ebbe a dire che la croce dei religiosi "era di paglia a paragone di quella de' secolari; e senza veruna uguaglianza le croci che portavano i secolari, benché di ferro, potevano paragonarsi a quella che portò" Cristo. Aveva perciò una visione piuttosto pessimistica della vita religiosa quale era vissuta nel suo tempo. Voleva che fosse impegnata, austera e materiata di opere. Soleva ripetere: "Figliuoli, operate fino che siete giovani, e patite volentieri, poiché quando uno è vecchio, non vi resta se non la buona volontà".

Lui tanto garbato nell'"avvertire", quando si trattava di religiosi, lasciava volentieri da parte immagini e allegorie. Cosí, a fra Francesco Antonio da Viterbo che si era arrabbiato contro il guardiano, disse di punto in bianco: "Paesano, se vuoi salvarti l'anima, hai da servare le seguenti cose: amar tutti, dir bene di tutti e far bene a tutti". A un altro suggerí: "Se voi volete vivere contento nella comunità religiosa, dovete osservare, tra le altre, queste tre cose: cioè soffrire, tacere ed orare". Era particolarmente severo contro chi veniva meno al voto di obbedienza. Ammoniva: "Chi non obbedisce è un anima morta innanzi a Dio ed al padre san Francesco, ed un corpo inutile alla religione"; "...rassomiglia ad un giovane senza giudizio, mentecatto e torbido in una famiglia, il quale è solamente buono per inquietare e disturbare gli altri e fare confusioni"; "...è come un corpo morto in una casa, che a nulla altro serve se non ad appestarla con il suo fetore".
Esortava a sovvenire i poveri che si presentavano alla porta, e diceva che Dio avrebbe provveduto in abbondanza, "quando avessimo tenute aperte le due porte, cioè quella del coro alla maggior gloria del Signore, e quella della portaria a beneficio de' poveri"; e ancora: "la porta mantiene il convento".

Fra Crispino era esigente con i religiosi, ma non pessimista nei confronti dell'Ordine: reputava una grande grazia poter in esso servire Dio. Incontrando un fanciullo orvietano, Girolamo, figlio di Maddalena Rosati, gli prediceva che sarebbe stato cappuccino, cantarellandogli: "Senza pane e senza vino, fraticello di fra Crispino". Il ragazzo si fece frate col nome di Giacinto da Orvieto e morí ancor chierico a Palestrina, appena ventunenne, nel 1749. Ma vi è pure tutta una serie di aforismi che si direbbero congeniali all'indole di fra Crispino. Con essi egli celia allegramente su fatti e situazioni non di rado penosi, con un inesauribile senso di humour. Il droghiere orvietano Francesco Barbareschi, tormentato dalla podagra, era da fra Crispino invitato lepidamente "a prender l'asta d'Achille, cioè la vanga, e faticare nella villa Crispigniana, chiamando cosí il suo orticello, ove seminava l'insalata e piantava gli erbaggi per i benefattori". Bruciante come una frustata in faccia, la risposta data ad un altro che gli chiedeva di esser guarito dallo stesso male: "Il vostro male è piú di chiragra che di podagra, perché... non pagate chi deve avere: li vostri operai e servidori piangono...".

Alla principessa Barberini, che voleva veder guarito subito il figlio Carlo rispose: "Eh, non ti basta che guarisca nell'Anno Santo ? ... Eh, che vuoi pigliare il Signore per la barba? Bisogna ricevere da Dio le grazie quando lui le vuol fare". A Cosimo Puerini, dispiacente di dare in elemosina una fiasca di vino buono, Crispino dice: "Eh, che vuoi fare il sagrificio di Caino?". Dopo che un cappuccino era scampato per miracolo alla morte nel tentativo di attraversare un fiume in piena, fra Crispino cantarellò: "Torbida si vede, torbida si lassa; son un gran matto, se si passa". A fra Crispino capitava spesso di dover parlare di se stesso... per aiutare gli altri a farsi sul suo conto un'idea piú rispondente a verità. Cosí almeno la pensava lui, che volentieri faceva eco ai suoi denigratori con dire: "sono peggiore dei merangoli, da' quali pure se ne ricava un poco di sugo, ma da me cosa vogliono ricavare?". Per sottrarsi a lodi ed ammirazione, fra Crispino ricorreva spesso ad immagini e similitudini. A chi gli diceva di non rovinare la minestra con l'assenzio, rispondeva: "Ogni amaro tenetelo caro", oppure: "Questo assenzio se non è secondo il gusto, è secondo lo spirito". A chi lo compassionava vedendolo camminare sotto la pioggia, diceva: "Amico, io cammino tra una goccia e l'altra ", oppure tirava in ballo la sua "sibilla "che gli teneva "l'ombrella sopra il capo "o gli portava le pesanti bisacce.

Essendo andato a visitare il cardinale Filippo Antonio Gualtieri, questi gli chiese perché mai, per l'occasione, non avesse indossato un abito e un mantello un poco migliori. E Crispino "al solito con una facezia rispose, allargando il mantello, che questo riluceva da tutte le parti, volendo significare che era logoro e sbucato". A chi si esaltava per i suoi miracoli, diceva: "Eh via, di che vi meravigliate? Non è già cosa nuova che Dio faccia miracoli"; "E non sai, amico, che san Francesco li sa fare i miracoli?". A Montefiascone, al popolo che gli tagliuzzava il mantello per farne reliquie, gridava: "Ma che fate, o povera gente! Quanto sarebbe meglio che tagliaste la coda ad un cane ! ... Che siete matti? tanto fracasso per un asino che passa! Andate in chiesa a pregare Iddio!".

L'umile bestia da soma tornava spesso nei discorsi di fra Crispino, e nelle sue parole non c'è alcunché d'affettato. Un giorno disse al p. Giovanni Antonio: "Padre guardiano, fra Crispino è un asino, ma la capezza che lo guida sta nelle vostre mani; però, quando volete che vada o si fermi, tirategli o allentategli la capezza". Quando si faceva aiutare a porsi sulle spalle le bisacce, "tutto allegro e gioviale egli diceva: Carica l'asino e va alla fiera"; e a chi gli chiedeva perché mai non si coprisse il capo contro la pioggia o il sole, rispondeva "facetamente: Non sai che l'asino non porta il cappello? e che io sono l'asino dei cappuccini?". Ma alcune volte soggiungeva con serietà: "Sai perché non porto la testa coperta ? Perché rifletto che sempre sto alla presenza di Dio".

Mariano D'Alatri

 

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