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Testimoni. Pubblichiamo ampi stralci di un articolo — dal titolo «Svegliate il mondo! La “via profetica” della vita consacrata» — che compare sul numero di ottobre di «Testimoni», rivista mensile del Centro editoriale dehoniano.

(Ugo Sartorio) La risposta della vita consacrata, come dice Papa Francesco, è la profezia. Non la vita angelica, ma un’esistenza umanizzata e umanizzante, non la vita perfetta quanto piuttosto una vita integrata, perennemente in cerca di integrazione, non la collezione dei molti magis (di più) rispetto alle altre vocazioni, quasi si trattasse di un concorso a premi, ma rivolti alla pienezza della nostra particolare vocazione.

La principale testimonianza dei religiosi consiste oggi nell’essere veri credenti che aiutano gli uomini e le donne del nostro tempo a crescere nella vocazione cristiana e a venirne attratti, qualora si trovino in una situazione di latitanza o di lontananza rispetto al cristianesimo, mostrando che è ancora possibile essere cristiani in pienezza scommettendo tutto sul Vangelo. Dal punto di vista cristiano, infatti, si testimonia non per suscitare ammirazione circa la propria vocazione particolarmente elevata, ma per corrispondere in pienezza al dono di Dio e per sostenere e incoraggiare la vocazione di tutti, affinché ogni battezzato prenda coscienza della sua vocazione e la esprima al meglio, nella linea della condivisione, dei percorsi comuni dentro i quali la diversità non è mai senza reciprocità, dell’effettivo scambio dei doni che rimanda sempre, in radice, all’accoglienza dell’altro come dono.

Innanzitutto, parlare della profezia in riferimento alla vita consacrata non significa affermare che ogni religioso, di fatto, quasi ex officio, è profeta, ma significa piuttosto indicare una tendenza complessiva, che va al di là del singolo individuo, sovvertendo un certo immaginario del profeta come uomo di punta, dal temperamento fortemente connotato e dalla biografia eccentrica. Papa Francesco alla domanda «qual è la priorità della vita consacrata?» ha risposto: «La profezia del Regno, che non è negoziabile. L’accento deve cadere nell’essere profeti, e non nel giocare a esserlo. Naturalmente il demonio ci presenta le sue tentazioni, e questa è una di quelle: giocare a fare i profeti senza esserlo, assumerne gli atteggiamenti. Ma non si può giocare in queste cose. Io stesso ho visto cose molto tristi al riguardo. No: i religiosi e le religiose sono uomini e donne che illuminano il futuro». Inoltre, il profeta vive l’unificazione dei tempi e il loro compenetrarsi alla luce della fedeltà di Dio, nel senso che «è un uomo di tre tempi: promessa del passato; contemplazione del presente; coraggio per indicare il cammino verso il futuro», come ha sottolineato Papa Francesco.

La vita consacrata è profezia dei beni futuri e perciò stesso contestazione di ogni tentativo di anticipare nella storia la sua stessa pienezza, sia nella forma ecclesiastica e trionfalistica della “cattura dell’eschaton” (il paradiso è già qui), sia nella forma della “secolarizzazione dell’eschaton” messa in atto dalla modernità: se questa mantiene la progressività lineare verso il futuro tipica della storia della salvezza, ne cambia però radicalmente il senso, il quale viene immanentizzato.

Il rimanere imbottigliati dentro un “tempo per sé” è un rischio che anche i consacrati, e spesso i più impegnati tra loro, possono correre. Questo accade, ad esempio, quando il baricentro della vita di un consacrato è il proprio ministero, in quella determinata forma, ma anche la propria visione di vita consacrata, di fraternità, di apostolato, di missione. Anche una comunità religiosa può isolarsi dentro il “tempo per sé”, nella forma dell’iperattivismo che non dà tregua, del “gigantismo delle opere” che fa sentire indispensabili, oppure dell’iperprogrammazione che alimenta la burocrazia ma non la vita nello spirito. Fratel Enzo Biemmi parla della necessità, nella vita consacrata, di custodire un’assenza, rinunciando al «tutto pieno», al «tutto sotto controllo», al «tutto programmato» che tanto seduce e sfibra l’uomo contemporaneo, consacrati compresi.

Sarebbe interessante rispondere alla domanda se nella Scrittura la profezia vada riferita più ai giovani o ai vecchi. È interessante notare come, in occasione del 2 febbraio di quest’anno, Papa Francesco abbia commentato il brano evangelico della presentazione al Tempio di Gesù in maniera del tutto singolare, attribuendo a Giuseppe e Maria l’esercizio della Legge e a Simone e Anna l’afflato profetico, quasi si trattasse di un appuntamento tra generazioni diverse, ognuna delle quali porta il suo dono. Entra qui in campo il complesso e discusso problema del rapporto tra le generazioni, un tempo garantito dalla tradizione, dal passaggio spontaneo del testimone da chi ormai nell’età matura vedeva nei figli e nipoti il prolungarsi di una storia con radici lontane. La profezia dei nostri anni, quindi, non potrà che darsi nella forma intergenerazionale, portando a sintesi e mettendo a frutto le qualità migliori di ogni età della vita, senza autocensure e senza deleghe.

Da qui nascono alcuni interrogativi rivolti in particolare ai religiosi: siamo sufficientemente liberi affinché la profezia possa accadere, o ci troviamo nella prigione di vetro di un tempo addomesticato, tutto controllato e già programmato, inospitale all’eventuale manifestazione del futuro di Dio? L’escatologico della nostra vita, segnalato dalla scelta del celibato e dalla concentrazione in Dio, rende le nostre comunità “luoghi di Vangelo”, dove ogni uomo e donna può intravedere la forza trasformante dell’ascolto e della pratica della parola di Dio credibile e convincente?

C’è vera fiducia nelle generazioni più giovani, che spesso giudichiamo fragili, incostanti, immature? I frati di mezza età o più avanti con gli anni, sono disposti a cedere ai giovani quote di responsabilità senza al contempo sottrarre loro quote di fiducia?

L'Osservatore Romano, 23 ottobre 2014.

 

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