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di Aurelio Molè

Il convegno ecclesiale nazionale di novembre non sarà una sorta di esposizione delle opere belle e buone che la Chiesa fa, ma «un momento in cui, a partire dalle forme di umanesimo negato, ci si ritrova insieme per capire in che maniera ci si possa sentire evangelicamente obbligati a non girare la testa e il cuore dall’altra parte». Intervista a monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei.

Tra il 9 e il 13 novembre 2015 si terrà a Firenze il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale che avrà per tema: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Come ben descritto nella presentazione ufficiale, sarà un momento per affrontare «il trapasso culturale e sociale che caratterizza il nostro tempo e che incide sempre più nella mentalità e nel costume delle persone, sradicando a volte principi e valori fondamentali per l’esistenza personale, familiare e sociale». Ne abbiamo parlato con monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei.

Che tipo di cammino la Chiesa italiana sta facendo in vista del convegno di Firenze?

«Dagli inviti che sto ricevendo e dagli incontri che si stanno realizzando nelle varie diocesi d’Italia o su richiesta di alcuni movimenti e associazioni devo dire che c’è una grande attenzione e attesa verso il convegno di Firenze. Tenendo conto che il convegno comunque fa i conti con altre iniziative e impegni della chiesa italiana e universale, sono contento che c’è attenzione e attesa verso Firenze. Il tipo di lavoro e di impegno che si sta realizzando è a diversi livelli. Si parte dalla sensibilizzazione delle chiese locali fino a veri e percorsi formativi che si stanno attivando proprio per arrivare a Firenze in maniera consapevole portando ognuno il proprio contributo».

Verso quale obiettivo?

«L’obiettivo è favorire una sorta di convegno che già nella fase di preparazione dia a tutti la possibilità di intervenire per dire la propria opinione. Il portale del convegno non è solo informativo ma “performativo”, interattivo, dove possono essere inserite in maniera concreta, immediata, visibile, le varie iniziative per farle interagire secondo le cinque vie in cui viene descritto il tipo di percorso che alcune chiese, movimenti, associazioni, stanno facendo per fare in modo che forme di umanesimo negato possano diventare, in nome di Cristo e del Vangelo, forme di umanesimo riuscito».

In quali ambiti di umanesimo negato la Chiesa dovrebbe impegnarsi di più?

«Forme di umanesimo negato sono tutte quelle dove la dignità della persona, l’essere persona, di fatto, non viene valorizzata per quello che è. Si va da forme più eclatanti come gli immigrati, fino alle vecchie e nuove povertà e ai giovani per cui è diventato estremamente difficile coltivare i propri sogni e realizzarli. Umanesimo negato è anche questa forma di dittatura del pensiero unico che viene imposto su questioni delicate come le relazioni. È un pensiero che viene imposto senza possibilità di poter dialogare e poter raggiungere una visione dell’uomo e delle sue relazioni che sia più rispettosa dell’uomo stesso. Ci sono diversi livelli di umanesimo negato, ma sono quelli in cui, con più o meno violenza e arroganza, chi non conta viene messo nelle condizioni di non vivere o vivere molto molto male».

Quale deve essere, secondo lei, lo “stile” della Chiesa? Non si rischia per Firenze un convegno accademico?

«Quando parliamo di stile accademico, bisogna conservare tutto il rispetto e l’attenzione per la dimensione di riflessione che deve accompagnare Firenze, anche perché non è una sorta di esposizione delle opere belle e buone che la Chiesa fa, ma è anche un momento in cui, a partire dalle forme di umanesimo negato, ci si ritrova insieme per capire in che maniera come Chiesa, partendo da Cristo, ci si possa sentire evangelicamente obbligati a non girare la testa e il cuore dall’altra parte. A me piacerebbe un convegno di Firenze al quale si arrivi con uno stile sinodale e dal quale si riparta con la voglia di continuare a vivere in maniera sinodale la nostra risposta al Vangelo. Per sinodale intendo un’attenzione vera e reale per tutto quello che sta avvenendo e alle tante risposte che nascono anche fuori dalla Chiesa strettamente intesa».

Pensa che il papa stia chiedendo alla Chiesa italiana un cambio di direzione?

«Il papa sta chiedendo un cambio di direzione a tutta la Chiesa. Che non vuol dire buttare al macero quello che si è fatto. Se ci troviamo con una Chiesa così attenta e sensibile alle indicazioni che ci sta dando papa Francesco, è perché la nostra è una Chiesa che viene dall’esperienza straordinaria dei papati di Benedetto XVI, Giovanni Paolo II, Paolo VI. Starei attento ai profeti della discontinuità, quasi che la Chiesa nascesse oggi. Papa Francesco è frutto del Concilio Vaticano II, di una Chiesa viva come quella dell’America Latina, di una sensibilità che viene da lontano. Certo, ha un modo fresco, credibile, bello e immediato di incarnalo, ma questo fa parte della sana e santa libertà che il Signore ha affidato a ognuno di noi. Però attenti a non ridurre ciò che il papa sta facendo come frutto del suo temperamento e della sua matrice culturale. È soprattutto un frutto del Concilio Vaticano II».

L’identikit del cristiano: da cosa lo si dovrebbe riconoscere?

«Lo si riconosce dalla credibilità dei suoi gesti. Se sono ispirati dal Vangelo o dal voler tener in piedi costruzioni di tipo umano legate a un tempo e a una stagione! Ce ne sono ancora tante di stagioni. Il papa ci aiuta a recuperare la freschezza del Vangelo. Quando un sacerdote, un vescovo o un papa non frappone troppe mediazioni, anche nel linguaggio, all’immediatezza del Vangelo, il credente viene riconosciuto perché fa i conti con la Parola di Dio e, una volta accolta, non sopporta ritardi. C’è la fretta dell’amore che lo porta dove c’è necessità di servizio».

Come recuperare il gusto della vita e del pensare secondo il Vangelo?

«C’è intanto da riscoprire il gusto del Vangelo che abbiamo perso in mezzo a tante realtà che hanno richiesto molte energie, tempo e troppe mediazioni. Per testimoniare la freschezza del Vangelo, a mio parere, ci vogliono, come indica papa Francesco, le strade della gioia e della misericordia che ci vengono dall’aver aperto il cuore al Signore. Se non percorriamo queste strade facciamo fatica ad essere evangelici».

È confermato che il papa prima di partecipare al convegno di Firenze voglia passare da qualche realtà umana emarginata di Prato?

«Il papa passa da Prato prima di andare a Firenze. Non è una tappa, ma è la porta d’ingresso per Firenze. È un modo per dire che il convegno nazionale ci deve educare ad avere uno sguardo dal basso sulla realtà per sapere guardare i bisogni. È uno sguardo rasoterra che non vuol dire abbandonare la pretesa di dare al mondo il contributo della fede, ma significa sintonizzarsi adeguatamente sul concreto, aderenti alla proposta cristiana. Passare da Prato offre la cifra interpretativa giusta di quello che deve essere il convegno di Firenze. Il papa va a Prato per visitare una comunità cristiana dove ci sono persone di 127 nazionalità diverse con una ricchezza straordinaria». fonte: Città Nuova

 

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