L'amicizia di Chiara e Francesco ben presto divenne condivisione di vita. Non si spartirono la vita l'un per l'altra, ma condivisero l'esperienza dell'unica vera Vita che è Cristo.

«Era prossima la solennità delle Palme, quando la fanciulla con cuore ardente si reca dall'uomo di Dio, per chiedergli che cosa debba fare e come, ora che intende cambiare vita. Il padre Francesco le ordina che il giorno della festa, adorna ed elegante, vada a prendere la palma in mezzo alla folla, e la notte seguente, uscendo dall'accampamento, converta la gioia mondana nel pianto (Cf. Eb 13,13; Gc 4,9) della passione del Signore. (...) La notte seguente, pronta ormai ad obbedire al comando del Santo, attua la desiderata fuga, in degna compagnia. E poiché non ritenne opportuno uscire dalla porta consueta, riuscì a schiudere da sola, con le sue proprie mani, con una forza che a lei stessa parve prodigiosa, una porta secondaria ostruita da mucchi di travi e di pesanti pietre»(LegSC 7: FF 3168-3169).

 

Anche il momento, in cui Chiara e Francesco si uniscono nell'unica esperienza di Vita, viene documentato. La domenica delle Palme del 1211-1212 Chiara: «spinta a fare ciò dal Padre degli spiriti» lascia per sempre la sua casa paterna per dimorare nella casa che «il Padre degli spiriti» le ha predisposto. Lascia l'abitazione della «gioia mondana per abitare nella Passione del Signore». Un trasloco che Chiara compie accompagnata e aiutata da una «degna compagnia». Da sola non sarebbe stata in grado da attuare. Infatti riuscì con le sue mani, «ma con una forza che a lei stessa parve prodigiosa» a schiudere una porta ostruita da mucchi di travi e di pesanti pietre. Tutto questo lo compì dopo aver venduto la sua eredità distribuendola ai poveri (Cf. Proc XII,3: FF 3087), in modo da disporsi con libertà a servire il Dio delle misericordie quanto prima poté (Cf. Proc XII,2: FF 3086).

Fino a questo momento Chiara fu educata dallo Spirito a condividere il suo cibo e i suoi risparmi con i poveri e i miseri. Ora il «Padre degli spiriti» la chiama a condividere tutta se stessa con il Povero Gesù Cristo. Una donazione non di cose, ma una donazione totale, entrando con Lui nel suo Mistero di Amore, che è Mistero di Passione, Morte e Resurrezione. Questa è la nuova vita e nuova abitazione che il «Padre degli spiriti» gli ha preparato.

 

«Abbandonati, dunque, casa, città e parenti, si affrettò verso Santa Maria della Porziuncola, dove i frati, che vegliavano in preghiera presso il piccolo altare di Dio, accolse la vergine Chiara con torce accese. Lì subito, rinnegate le sozzure di Babilonia, consegnò al mondo il libello del ripudio (Dt 24,1); 1ì, lasciando cadere i suoi capelli per mani dei frati, depose per sempre i variegati ornamenti. (...) Poi, dopo che ebbe preso le insegne della santa penitenza davanti all'altare di santa Maria e, quasi davanti al talamo nuziale della Vergine, l'umile ancella si fu sposata a Cristo» (LegsC 8: FF 3170. 3172).

 

Francesco e i suoi frati accogliendola tra di loro le tagliano i capelli. Un gesto questo che ha fatto riflettere alquanto, data la sua eccezionalità. Quale il suo significato? Quale il valore di questo gesto?

Per il Celano questo gesto ha un senso nuziale. Chiara si è sposata a Cristo. Con questo gesto, Chiara, si sgancia dai legami famigliari per stringere un vincolo con Cristo-Sposo in una vita di penitenza con i penitenti di Assisi.

Il brano della LegsC non evidenzia con chiarezza il valore di questo gesto. Infatti dai termini usati come «lasciar cadere i suoi capelli per mano dei frati» sembra un segno che manifesta l'inizio di una vita penitenziale, più che un segno che inserisce in una vita di consacrazione. Il fatto che non si usi il termine "tonsura", che è il termine tecnico per esprimere la consacrazione delle vergini, questo fa pensare non tanto ad una vita vissuta nel claustro, ma ad una vita vissuta come stato penitenziale.

È altrettanto vero che il Celano pone questo gesto in un ambito liturgico e con un linguaggio nuziale tipico della cerimonia della consacrazione delle Vergini.

 

A proposito, P. Sabatier, che nella sua "Vie de S. François d'Assise" dice: «... come per la fondazione dell'Ordine dei Frati, [Francesco] si sarebbe consigliato solo con se stesso e con Dio. Fu la sua forza: se avesse esitato, o anche se fosse stato semplicemente sottomesso alle regole ecclesiali, sarebbe stato fermato venti volte prima d'aver fatto qualcosa. Il successo è un argomento tanto potente, che gli agiografi sembrano non accorgersi quando Francesco abbia ignorato le leggi canoniche. Semplice diacono, s'arrogò il diritto di ricevere i voti di Chiara e di darle la tonsura, senza nessun noviziato».

 

In questo brano, il Sabatier è molto esplicito. Per lui è un gesto di vera consacrazione. Usa il termine "tonsura". Francesco è visto come un diacono arrogante che pone un gesto che compete solo al Vescovo, addirittura senza dar seguito a questo gesto all'anno di noviziato.

Da parte sua M. Bartoli recupera l'ambito liturgico del Celano e dice che Francesco: «...per l'occasione "inventa" una nuova liturgia per poter accogliere degnamente Chiara nel nome del Signore. Una liturgia che comprendeva l'arco dell'intera giornata e che esprimeva la fantasia religiosa del santo inventore della "liturgia del presepio di Greccio"» (p. 68).

Riguardo al valore del gesto dice che «... poi sancto Francesco la tondì denante all'altare» (Proc 12,4). Riportando questa espressione, lo considera un gesto di consacrazione. Infatti: «fu lui [Francesco] con le sue mani a tagliare i capelli di Chiara e, con questo, a consacrarla al Signore» (p. 67).

Che questo gesto del «capo tondito», per quel tempo, avesse una valenza di scelta di vita, sganciandosi dalla famiglia, lo dimostra il fatto che quando i parenti di Chiara si recano alla Porziuncola per riportarla a casa, lei mostra il «capo tondito» e questi non poterono far più nulla. Questo però non vuol dire ancora "consacrazione" in una vita claustrale.

Trovo molto più verosimile l'interpretazione che ne dà il P. L. Padovese il quale dice: «... proprio a motivo del periodo penitenziale e della impossibilità "giuridica" dei frati di consacrare una vergine - fu, fondamentale un dare ed un assumere "sanctae poenitenziae insignia [le insegne della santa penitenza]". Resta tuttavia vero che questo momento è visto come un porsi totalmente al "servitium Christi" ovvero come un entrare in religione». (p. 403-404).

«Il carattere di scelta quasi definitiva che comportava questo atto è rimasto presente nel cap. II della RgsC in cui, parlando delle donne che chiedono l'ammissione al monastero, si precisa che "capillis tonsis in rotundum et deposito habitu saeculari, (abbatissa) concedat ei tres tunicas et mantellum. Deinceps extramonasterium sine utili, manifesta et probabili causa eidem exire non liceat"; [Poi, tosati i capelli in tondo e deposto l’abito secolare, le conceda tre tonache e il mantello. Da quel momento non le è più lecito uscire fuori di monastero, senza un utile, ragionevole, manifesto e approvato motivo] (RgsC II,12-13: FF 2759),. Comunque tonsura e rivestimento di un abito religioso non sono ancora la "velatio" o "consecratio in monialem" per la quale è richiesta la presenza del Vescovo: quanto separa i due atti è l'"annum probationis"» (p. 405).

«La tonsura segnò [comunque] la definitività della sua scelta di vita o, come direbbe il Celano, fu uno dei monili matrimoniali con i quali si sposò per sempre a Cristo; ma per lei, Chiara, tale gesto - al di là dell'interpretazione sponsale successiva - significò l'inizio della "conversione" ed il "facere poenitentiam"» (p. 406).

Perciò questo gesto del "capo tondito" ha una valenza di scelta di vita penitenziale definitiva. Una vita per il Signore povero umile e crocifisso.

Infatti Francesco dirà di coloro che «fanno frutti degni di penitenza»: «Oh, come sono beati e benedetti quelli e quelle, quando fanno tali cose e perseverano in esse, perché riposerà su di essi lo Spirito del Signore e farà presso di loro la sua abitazione e dimora» (1Lf 1,4-6: FF 176/1-176/2).

Da questo momento Chiara divenne la «sposa dello Spirito Santo» scegliendo di vivere, come e con Francesco, secondo la perfezione del santo Vangelo (Cf RgsC VI,3: FF 2788).

 

Fedeltà di Chiara a Francesco

Chiara guidata «dall'operazione dello Spirito del Signore» vive la fedeltà al vangelo rimanendo fedele a Francesco, legandosi a Lui per obbedienza:

 

«Dopo che l'Altissimo Padre celeste si fu degnato, per sua misericordia e grazia, di illuminare il mio cuore perché incominciassi a fare penitenza, dietro l’esempio e l’ammaestramento del beatissimo padre nostro Francesco, poco tempo dopo la sua conversione, io, assieme alle poche sorelle che il Signore mi aveva donate poco tempo dopo la mia conversione, liberamente gli promisi obbedienza, conforme alla ispirazione che il Signore ci aveva comunicata attraverso la lodevole vita e l’insegnamento di lui» (TestsC 24-26: FF 2831).

Con l'espressione "legarsi per obbedienza", a quel tempo, equivaleva esprimere l'appartenenza al medesimo gruppo. Per Chiara, invece, questo non ha voluto dire solamente far parte del gruppo, ma essere profondamente radicata e abbarbicata a Francesco. Tanto è vero che Lei si definisce la pianticella del padre santo. Con questa immagine, Chiara, vuol dire la docile dipendenza a colui che fu: «fondatore, piantatore e sostegno nostro nel servizio di Cristo e in quelle cose che promettemmo a Dio e al medesimo nostro padre [Francesco], ed egli, finché visse, ebbe sempre premurosa cura di coltivare e far crescere noi, sue pianticelle, con la parola e con le opere sue» (TestsC 48-49: FF 2842).

 

E come ogni pianta per poter vivere ha bisogno di alimentarsi dell'humus del terreno e attraverso la linfa alimentare tutte le parti della pianta, così Chiara si alimentava del santo Vangelo e attraverso Francesco, questo santo Alimento, raggiungeva tutto il suo essere e quello delle sorelle.

Infatti nel TestsC si dice: «Ed io, Chiara, che sono, benché indegna, la serva di Cristo e delle Sorelle Povere del monastero di San Damiano e pianticella del padre santo, poiché meditavo, assieme alle mie sorelle, la nostra altissima professione e la volontà di un tale padre» (TestsC 37: FF 2838).

 

Questa fedeltà di Chiara a Francesco la si nota sia nella tipologia degli Scritti quali la Regola, il Testamento, la Benedizione, che si trovano in entrambi e che dunque è chiarissima la fedele dipendenza di Chiara a Francesco, come pure la si coglie anche dagli aspetti di contenuto teologico-pratico della spiritualità che emerge dagli Scritti di Chiara.

« Chiara contempla Dio Padre come fonte di ogni bene e di ogni virtù: «Rendo grazie al Donatore della grazia, dal quale, come si crede, proviene ogni fervore eccellente e ogni dono perfetto, perché ti ha adornata di tanti titoli di virtù...». (2 LAg 3); «Noi godiamo - dice sant'Agnese - dei beni che il Signore opera in te con la sua grazia» (2, 25). È questa una delle verità fondamentali della spiritualità di san Francesco, che spesso ritorna nei suoi scritti: «E restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamogli grazie, perché procedono tutti da Lui...» (Cf. Rnb 17,17‑18: FF 49). È Lui che opera il bene nelle anime (cfr. Rnb 17,6; Am 2,3; 17,1). Dio infatti è la sorgente di ogni virtù: «Santissime virtù, voi tutte salvi il Signore, dal quale venite e procedete» (Lodv 4: FF 256).

Per lo sguardo puro di chi si riconosce povero davanti a Dio tutto è dono del suo amore: qui nasce quel gioioso e incessante rendimento di grazie che pervade sia le quattro Lettere di santa Chiara che gli scritti del Serafico Padre (ad esempio la preghiera finale delle Lodi per ogni ora: FF 265).

La vita francescana diventa allora un'Eucarestia, un'offerta a Dio come dice Chiara nella Lettera seconda (2,10). L'esistenza terrena di santa Chiara si chiuderà proprio con il rendimento di grazie: «Tu, Signore, sii benedetto, lo quale ma hai creata» (Proc III,20: FF 2986).

La gioia, I'intima esultanza, che Chiara esprime in tutte le sue Lettere, sono frutto della fede in Dio come fonte di ogni bene e sono anch'esse una modalità del rendimento di grazie a Lui che rivela la sua bontà in tutte le sue opere: «... con te gioisco ed esulto nel gaudio dello spirito, o sposa di Cristo» (4 LAg 7; cfr. 1,3.21; 3, 4.5.9-10).

Dio Padre, inoltre, è presentato da santa Chiara come la meta del cammino evangelico sulle orme di Gesù: Agnese è chiamata ad essere «... diligente imitatrice del Padre in cui è ogni perfezione». Nella preghiera «Onnipotente», al termine della Lettera a tutto l'Ordine, san Francesco chiede la grazia di seguire le orme di Cristo per «giungere a te, o Altissimo, che nella Trinità perfetta e nella Unità semplice vivi e regni glorioso, Dio onnipotente...» (LCap 50‑52: FF 233).

Se Dio Padre è l'origine e la meta del cammino, Cristo è la via. Tre volte nelle Lettere santa Chiara parla delle «orme» di Gesù (2,7; 3,4.25), riferendosi all'espressione della prima Lettera di san Pietro 2,21, che ha plasmato la spiritualità di San Francesco nell'aspetto della sequela di cristo: «La regola e la vita dei frati è questa,...seguire le dottrina e le orme ("vestigia") del Signore nostro Gesù Cristo» (Rnb 1,1: FF 4; anche Rnb 22,2; 2 Lf 13; LCap 51; LfL 3).

Gesù, Verbo incarnato, è al centro della teologia delle Lettere a sant'Agnese: Chiara contempla la sua opera nelle diverse fasi della storia della salvezza, in modo distinto da quella delle altre Persone della SS. Trinità. Gesù è Creatore, Colui «che disse s tutto fu fatto», Colui «che reggeva e regge il cielo e la terra» (1 LAg 17); è Redentore, che « per noi tutti sostenne la passione della croce» per liberarci dalla schiavitù del peccato e «riconciliarci con Dio Padre» (1 LAg 14); è Salvatore, che per sua misericordia ci otterrà di godere dell'eterna visione (cfr. 1 LAg 34).

Nella Regola non bollata, al capitolo 23, Francesco in modo esemplare considera la funzione salvifica di Cristo nella storia: «per la tua santa volontà e per l'unico tuo figlio con lo Spirito Santo hai creato tutte le cose spirituali e corporali...; e come tu hai creato per mezzo del tuo Figlio, così per il santo tuo amore con il quale ci hai amato, hai fatto nascere lo stesso vero Dio e vero uomo dalla gloriosa sempre vergine beatissima santa Maria e per la croce, il sangue e la morte di Lui ci hai voluti redimere dalla schiavitù... lo stesso tuo Figlio ritornerà nella gloria della sua maestà... per dire a tutti coloro che ti conobbero...: Venite, benedetti dal Padre mio, entrate in possesso del regno che vi è stato preparato dalle origini del mondo» (Rnb 23,1‑4: FF 63‑65).

Anche in altri passi dei suoi scritti san Francesco attribuisce a Cristo la funzione mediatrice nella Creazione (Am 5,1: FF 153; 2 Lf 12: FF 184, due volte lo chiama «Creatore»: Am 5,2; LCap 34: FF 224);lo contempla offrire la sua vita per la nostra redenzione (2 Lf 12.56.61: FF 184.201.202; LCap3: FF 215). «Guardiamo con attenzione il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce» (Am 6,1: FF 155). L'espressione «crucis sustinuit passionem» è la stessa usata da santa Chiara nel passo della Lettera 1, 14, sopra riportato. Il frutto della Redenzione è, come per Chiara, la riconciliazione con Dio Padre (cfr. LCap 13: F 217).

Pur nella stessa visione dell'opera della salvezza, Francesco predilige la sintesi teologica; nei suoi scritti, più che considerare gli avvenimenti esteriori della vita di Gesù, contempla il significato profondo dell'Incarnazione, come abbassamento e amore condiscendente del Figlio di Dio, di solito in un'ottica trinitaria (a Dio Trinità, infatti, attribuisce più volte l'appellativo di «Creatore, redentore, salvatore»); Chiara ama anche fermare l'attenzione sulla Persona stessa di Gesù, rappresentandosi fin nei minimi particolari le umiliazioni e sofferenze da Lui abbracciate per amore nostro (per esempio 2 LAg 19-20). Comunque, nonostante queste sfumature differenti, ritroviamo in santa Chiara il grande equilibrio teologico e spirituale di san Francesco, che univa la contemplazione riverente della maestà del Cristo glorioso con la devozione commossa e ammirata dell'umiltà dell'Incarnazione: «Se dunque tanto grande e tale Signore, venendo nel grembo verginale - "in uterum veniens virginalem" - volle apparire nel mondo spregievole, bisognoso e povero...» (1 LAg 19). Siamo nella stessa prospettiva in cui si situa la contemplazione di Francesco: «Ecco ogni giorno egli si umilia (nell'Eucarestia), come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine - "venit in uterum Virginis"» (Am 1,16: FF 144; cfr. anche 2 Lf 4-5). «O ammirabile altezza e degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane!» (LCap 27: FF 221), esclama Francesco davanti al mistero eucaristico. «O mirabile umiltà, o povertà che da stupore! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra è adagiato in una mangiatoia» (4 LAg 20‑21), è lo stupore di Chiara per l'umiltà di Betlemme.

Di fronte alla povertà e all'umiltà di Gesù, Francesco e Chiara non dimenticano mai la sua divina trascendenza: entrambi prediligono per il Figlio di Dio i nomi «Dominus», «Dominus noster Iesus Christus», o, santa Chiara soprattutto, «Christus». Essi considerano sempre unite la natura divina e quella umana nell'unica Persona del Verbo di Dio fatto uomo: in questo si differenziano dalla spiritualità cisterciense, che faceva dell'Umanità di Gesù un gradino per giungere alla contemplazione della Divinità del Verbo.

Uguale, poi, in san Francesco e santa Chiara è il frutto della contemplazione di Cristo: essi non si fermano a un'esperienza spirituale ma rivivono nella loro esistenza il mistero del Signore Gesù. Se in Francesco tale unione sarà sigillata anche nel corpo con l'impressione delle Stimmate alla Verna, dalle Lettere possiamo dedurre quale profonda comunione a livello esistenziale ci fosse tra santa Chiara e Cristo: Chiara contempla di preferenza proprio quegli aspetti della vita di Gesù che nella Regola e nel Testamento afferma di rivivere lei stessa con grande letizia (RegsC 6,2; TestsC 27-28), fino a giungere all'esperienza beatificante dell'unione trasformante (3 LAg 12-14), espressa con termini che non troviamo negli scritti di san Francesco.

Passando alla Terza Persona della SS. Trinità, notiamo che l'unica volta che santa Chiara nomina lo Spirito Santo, come autore della vocazione (2 LAg 14), lo fa con un'espressione tipica del Padre san Francesco, «Spiritus Domini», lo Spirito del Signore (cfr. Rnb 17,14: FF 48; Rb 10,8: FF 104; Am 1,12: FF 143; Am 12,1: FF 161; 2 Lf 48: FF 200).

Il mistero dell'inabitazione trinitaria nell'anima, che Chiara espone nella Lettera terza (3,21-26), stava particolarmente a cuore al Serafico Padre, che esorta a costruire «sempre in noi una casa e una dimora permanente - "habitaculum et mansionem" - a Lui che è il Signore Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo» (Rnb 22,27: FF 61) e ad «avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione» (Rb 10,8: FF 104). Se per Chiara è l'anima fedele ad essere dimora («mansio et sedes») della Trinità - l'anima che possiede in sé la «caritas», che ama Gesù, seguendone le orme di povertà e umiltà, ed è riamata dal Padre -, Francesco, con altri termini, pone come condizione per lo Spirito del Signore riposi nell'anima la perseveranza nella vita di continua conversione a Dio, descritta dalla Lettera a tutti i fedeli, nell'accoglienza della sua Parola (Cf. 2Lf 48: FF 200).

Lo Spirito Santo, secondo san Francesco, opera nell'anima un'intima relazione con le Tre Persone divine: «E saranno figli del Padre celeste (Cfr. Mt 5,45), di cui fanno le opere, e sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo (Cfr. Mt 12,50). Siamo sposi, quando l’anima fedele si congiunge a Gesù Cristo per l’azione dello Spirito Santo. E siamo fratelli, quando facciamo la volontà del Padre suo (Cfr. Mt 12,50), che è in cielo. Siamo madri (Cfr. 1Cor 6,20), quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo attraverso l’amore e la pura e sincera coscienza, e lo generiamo attraverso il santo operare, che deve risplendere in esempio per gli altri (Cfr. Mt 5,16)».

Chiara chiama Agnese «sposa, madre, sorella» del Signore Gesù Cristo (1 LAg 12.24). Se sviluppa in modo particolare la relazione della sponsalità molto piú di Francesco, ama anche contemplare il mistero della nostra maternità spirituale nei riguardi di Cristo, con una speciale accentuazione mariana. «Come, dunque, che la gloriosa Vergine delle vergini portò Cristo materialmente nel suo grembo, tu pure, seguendo le sue vestigia (Cfr. 1Pt 2,21), specialmente dell’umiltà e povertà di Lui, puoi sempre, senza alcun dubbio, portarlo spiritualmente nel corpo casto e verginale» (3 LAg 2425): si coglie in questo passo l'eco dell'insegnamento del Padre san Francesco, anche per la sottolineatura del ruolo del corpo, tempio dello Spirito Santo (cfr. 2 Lf 53: FF 200; Rnb 12,5-6: FF 38).

Riguardo poi alle virtù, abbiamo già notato che san Francesco le contempla innanzi tutto nella loro origine, che è Dio stesso. Nella continua insistenza di Chiara sul tema della povertà nelle Lettere ad Agnese di Praga riconosciamo lo spirito autentico del Padre san Francesco. Entrambi considerano la povertà nella sua dimensione cristologica, la contemplano come la virtù prediletta dal Signore Gesù nella sua vita terrena: Egli, venendo in questo mondo, volle apparire «spregievole, bisognoso e povero» (1 LAg 19). I frati, insegna Francesco nella Regola non bollata, devono «seguire l'umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo», il quale «fu povero e ospite, e visse di elemosine, lui e la Beata Vergine e i suoi discepoli» (9,1.5: FF 29.31), fu «bisognoso e povero - "egenus et pauper"» (Uff 8,6: FF 291). La povertà è quindi anche la virtù privilegiata nella sequela di Gesù povero: se Francesco nella Lettera a frate Leone (FF 250) mette in stretta relazione la povertà con le orme di Cristo, Chiara giunge perfino ad identificare le sue orme con la povertà stessa, insieme all'umiltà (3 LAg 25).

E stato notato che Chiara nei suoi scritti usa molto più frequentemente la parola «paupertas», povertà, rispetto a Francesco: 41 volte Chiara, di cui 14 nelle Lettere; solo 16 volte Francesco, i cui scritti sono di ampiezza tre volte maggiore. Forse Chiara sentiva la necessità di evidenziare il valore della povertà materiale perché la vedeva conti continuamente e seriamente minacciata da ogni parte, dal Papa, dai frati e anche dalla fragilità stessa sua e delle sue sorelle (cfr. TestsC 38). Nella seconda Lettera a sant'Agnese - lo abbiamo già sottolineato - santa Chiara si sente custode del carisma evangelico ricevuto dal Poverello e trasmette alla sua sorella lontana l'esortazione dell'«Ultima volontà» di Francesco a restare fedele per sempre alla santa povertà (cfr. 2 LAg 17).

Inoltre nelle Lettere la povertà è accompagnata più volte dall'umiltà (2 LAg 7; 3 LAg 4. 7.25; 4 LAg 18.20.22): sono come due virtú inseparabili. Francesco chiamava l'umiltà «sorella» della povertà: «Signora santa povertà, il Signore ti salvi con tua sorella, la santa umiltà» (Lodv 2: FF 256; cfr. Rnb 9,1; Rb 6,2; 12,4). L'umiltà è l'aspetto interiore della povertà materiale, la salva perché le dona il suo vero valore unendola al mistero dell'abbassamento del Figlio di Dio.

Nel passo della Lettera terza (3,6) dove la Santa gioisce perché vede Agnese «sostenuta come da una mirabile prerogativa della sapienza che procede dalla bocca stessa di Dio, trionfare... sulle astuzie dello scaltro nemico, sulla superbia che è rovina del genere umano e sulla vanità che rende fatui i cuori degli uomini», ritroviamo il pensiero del Padre Francesco riguardo alla sapienza, la regina delle virtù. «La santa Sapienza confonde Satana e tutte le sue insidie» (Lodv 9: FF 258). Sono «ciechi, ingannati dai nostri nemici, cioè dalla carne, dal mondo e dal diavolo» coloro che «non posseggono la sapienza spirituale, poiché non hanno in sé il Figlio di Dio, che è la vera sapienza del Padre» (2 Lf 69 67: FF 203‑204).

La sapienza è l'esperienza, il gusto delle cose di Dio: per questo sconfigge il principe di questo mondo, che cerca di ingannarci sovvertendo i valori della realtà. Possedere la vera sapienza è «avere in sé il Figlio di Dio», è seguire la via della croce, abbracciando il tesoro nascosto del Regno di Dio, «con l'umiltà, la forza della fede e le braccia della povertà» (3 LAg 7).

Nelle Lettere, dunque, anche se forse in modo meno lineare che negli altri scritti, si vede chiaramente che la spiritualità di san Francesco è il terreno su cui è fiorita quella propria di Chiara: anche molti anni dopo la sua morte, Francesco rimase sempre colui in cui la sua «pianticella» davvero «ce se vedeva tutta, come quasi in uno specchio» (cfr. Proc III,29: FF 2995). ».

 

Da quanto riportato si comprende che Chiara riteneva importante l'essere legata a Francesco. Ciò le garantiva non solo l'identità di ispirazione, di destino, ma soprattutto era per Lei rimanere fedele al Padre celeste e a Lui solo servire, per attuare per la forza del suo Amore la Sua santa Volontà.

Certo, questa fedeltà non fu solo a senso unico, quasi a dire, di Chiara a Francesco. Anche Francesco s'impegnò: «da parte sua e dei suoi frati, di avere sempre cura affettuosa e sollecitudine speciale» delle sorelle (Cf. RsC VI,4: FF 2788; TestsC 29.49: FF 2833).

Anche dopo la morte di Francesco, Chiara ricorda questo dovere di fedeltà alle sorelle anche ai successori di Francesco:

«Ciò che egli [Francesco] con tutta fedeltà ha adempiuto finché visse, e volle che dai frati fosse sempre adempiuto» (RgsC V: FF 2789); «così io affido le mie sorelle, presenti e future al successore del beato padre nostro Francesco e ai frati tutti del suo Ordine, perché ci siano d’aiuto a progredire sempre di più nel bene nel servizio di Dio e soprattutto nell’osservare meglio la santissima povertà (TestsC 50-51: FF 2842).

Fedeltà reciproca per una fedeltà al santo Vangelo.

 

"Privilegium paupertatis"

«Gregorio Vescovo, servo dei servi di Dio, alle dilette figlie in Cristo Chiara e alle altre ancelle di Cristo, viventi in comune presso la chiesa di San Damiano, nella diocesi di Assisi, salute e apostolica benedizione.

È noto che, volendo voi dedicarvi unicamente al Signore, avete rinunciato alla brama di beni terreni. Perciò, venduto tutto e distribuitolo ai poveri (Cfr. Mt 19,21), vi proponete di non avere possessioni di sorta, seguendo in tutto le orme (Cfr. 1Pt 2,21) di colui che per noi si è fatto povero (2Cor 8,9), e via e verità e vita (Gv 14,6).

Né, in questo proposito, vi spaventa la privazione di tante cose: perché la sinistra dello sposo celeste è sotto il vostro capo (Ct 2,6), per sorreggere la debolezza del vostro corpo, che con carità bene ordinata avete assoggettato alla legge dello spirito (Ct 2,4; cfr, Rm 8,7).

E infine, colui che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo (Mt 6,26.28), non vi farà mancare né il vitto né il vestito, finché nella vita eterna passerà davanti a voi e vi somministrerà se stesso (Lc 12,37), quando cioè la sua destra vi abbraccerà (Ct 2,6) con gioia più grande, nella pienezza della sua visione.

Secondo la vostra supplica, quindi, confermiamo col beneplacito apostolico, il vostro proposito di altissima povertà, concedendovi con l’autorità della presente lettera che nessuno vi possa costringere a ricevere possessioni.

Pertanto a nessuno, assolutamente, sia lecito invalidare questa scrittura della nostra concessione od opporvisi temerariamente.

Se qualcuno poi presumesse di attentarlo, sappia che incorrerà nell’ira di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Perugia il 17 settembre, l’anno secondo del nostro Pontificato (Priv, FF 3279)

 

È proprio nel "Privilegio della povertà" che si coglie la forma o l'espressione della fedeltà di Chiara al Vangelo e a Francesco. Se il legame con Francesco e i suoi frati è vissuto da Chiara come salvaguardia dell'appartenenza al gruppo o meglio alla fraternità dei "Poveri di Assisi", con il "Privilegio della povertà" si ha l'originalità dell'appartenenza alla fraternità e al movimento suscitato da Francesco.

Solo così si può comprendere la fermezza di Chiara nel chiedere questo "Privilegio" al papa Innocenzo III e poi, di premurosamente farlo confermare dai suoi successori. Questa sua fermezza, piena di convinzione la si può cogliere nel brano riportato nella LegsC 14. Ella dinnanzi al papa Gregorio IX che trovava insensata la proposta di Chiara di vivere in assoluta povertà, soprattutto per un monastero di clausura si legge: «Ma ella si oppose con decisione incrollabile e in nessun modo si lasciò convincere. E quando il Pontefice le replicò: «Se temi per il voto, Noi te ne dispensiamo », "Santo Padre - ella rispose - a nessun patto e mai, in eterno, desidero essere dispensata dalla sequela di Cristo!"» (LegsC 14: FF 3187).

La povertà per Chiara non è questione di possedimenti o rendite, quasi a dire una sicurezza economica. Nemmeno è una questione giuridica del Voto di povertà, dal quale essere dispensata con un privilegio. Per Lei è questione di Vocazione: Cristo è la sua e la nostra vocazione.

Infatti Chiara ha coscienza che nel difendere la Povertà difende Cristo, cioè la "Forma vitae" datale da Francesco. In ultima analisi, questa "Forma vitae" è la sostanza della sua vita povera e semplice, proiettata interamente nell'Amore di Cristo, e delle Sorelle, sull'esempio di Francesco e dei frati, ed è anche la sua appartenenza all'Ordine francescano.

Chiara, nel "Privilegio della povertà" chiede il privilegio di vivere senza privilegi. Un privilegio che garantiva una vita senza garanzie.

Anche nel suo TestsC parla della povertà. Infatti quasi un quarto del documento lo spende per richiamare le Sorelle al valore della povertà. Vi si sente trapelare una vera inquietudine. Chiara con le sue Sorelle ha promesso: «la santissima povertà» alla sequela di Cristo e di Francesco, e vi impegna tutte coloro che le succederanno nell'ufficio di "serva delle Sorelle" (abbadessa): «siano obbligate ad osservarla e a farla osservare dalle altre fino alla fine» (TestsC 41: FF 2839).

Chiara supplica anche la Chiesa e tutto l'Ordine di aiutarla a rimanervi fedele: «Per la quale cosa, piegando le ginocchia e inchinandomi profondamente, anima e corpo, affido in custodia alla santa madre Chiesa romana, al sommo Pontefice, e specialmente al signor cardinale che sarà deputato per la Religione dei frati minori e nostra, tutte le mie sorelle, le presenti e quelle che verranno, perché, per amore di quel Signore, che povero alla sua nascita fu posto in una greppia (Lc 2,12), povero visse sulla terra e nudo rimase sulla croce, abbia cura di far osservare a questo suo piccolo gregge (Cfr. Lc 12,32) - questo che l’altissimo Padre, per mezzo della parola e dell’esempio del beato padre nostro Francesco, generò nella sua santa Chiesa, proprio per imitare la povertà e l’umiltà del suo diletto Figlio e della sua gloriosa Madre vergine -, la santa povertà, che a Dio e al beato padre nostro Francesco abbiamo promessa, e si degni ancora di infervorare e conservare le sorelle in detta povertà.

Inoltre, come il Signore donò a noi il beatissimo padre nostro Francesco come fondatore, piantatore e sostegno nostro nel servizio di Cristo e in quelle cose che promettemmo a Dio ed al mede-simo nostro padre, ed egli, finché visse, ebbe sempre premurosa cura di coltivare e far crescere noi, sua pianticella, con la parola e con le opere sue; così io affido le mie sorelle, presenti e future al successore del beato padre nostro Francesco e ai frati tutti del suo Ordine, perché ci siano d’aiuto a progredire sempre di più nel bene nel servizio di Dio e soprattutto nell’osservare meglio la santissima povertà» (TestsC 44-51: FF 2841-2842).

Dietro a queste righe si ravvisano le pressioni esterne, le difficoltà interne, l'incertezza quanto alla determinazione delle sorelle che abbracceranno la "Forma vitae": «Ed io, Chiara, ... poiché meditavo, ... la nostra altissima professione e la volontà di un tale padre, ed anche la fragilità delle altre che sarebbero venute dopo di noi, temendone già per noi stesse ... perciò più e più volte liberamente ci siamo obbligate alla signora nostra, la santissima povertà, perché, dopo la mia morte, le sorelle che sono con noi e quelle che verranno in seguito abbiano la forza di non allontanarsi mai da essa in nessuna maniera» (TestsC: FF 2838).

 

Ma è soprattutto nell'appello alla Chiesa e all'Ordine che il tono è fermo e risoluto. Non bisogna credere né alle pressioni provenienti dalla prudenza umana, né a quelle della debolezza e della mediocrità.

Anche nelle lettere ad Agnese di Praga non tralascerà di parlare della Povertà, anzi richiamerà a non cedere a nessuno e per nessuna ragione: «E se qualcuno ti dice o ti suggerisce altre iniziative, ... pur portandoti con tutto il rispetto, non seguire però il consiglio di lui, ma attaccati, vergine poverella, a Cristo povero» (2LAg 17-18: FF 2878).

 

La ferma decisione, quindi, di Chiara è dovuta alla fedeltà a Francesco che ha voluto e a scritto per loro la "Forma vitae" richiamandole a perseverare sempre nella santa Povertà: «Io, frate Francesco piccolo, voglio (...) e prego voi, mie Signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà. E guardatevi attentamente dall'allontanarvi mai da essa in nessuna maniera per insegnamento o consiglio di alcuno» (Uv: FF 140.

«Poiché, per divina ispirazione, vi siete fatte figlie e ancelle dell'altissimo sommo Re, il Padre celeste, e vi siete sposate allo Spirito Santo, scegliendo di vivere secondo la perfezione del santo Vangelo, voglio e prometto, da parte mia e dei miei frati, di avere sempre di voi, come di loro, cura e sollecitudine speciale» Fv: FF 139).

 

Fedeltà a Francesco è fedeltà alla vocazione: «perché, per amore di quel Signore, che povero alla sua nascita fu posto in una greppia (Lc 2,12), povero visse sulla terra e nudo rimase sulla croce, abbia cura di far osservare a questo suo piccolo gregge (Cfr. Lc 12,32) - questo che l’altissimo Padre, per mezzo della parola e dell’esempio del beato padre nostro Francesco, generò nella sua santa Chiesa, proprio per imitare la povertà e l’umiltà del suo diletto Figlio e della sua gloriosa Madre vergine» (TestsC 45-46: FF 2841). Cristo è il contenuto esatto di questa Povertà.

Ma concretamente in che cosa consiste? Nella RgsC e nel TestsC si legge: «non accettare, cioè, né avere possedimenti o proprietà né da sé, né per mezzo di interposta persona, e neppure cosa alcuna che possa con ragione essere chiamata proprietà»  (RgsC VI,12: FF 2791).

Da questi testi emerge che la Povertà non consiste, dunque, nella povertà delle vesti o nell'assenza di denaro. Il richiamo insiste sul rifiuto dei possedimenti e delle rendite stabili.

Proprio qui stà il punto originale, non solo del francescanesimo femminile, ma, più ancora, nella forma di vita monacale femminile nella Chiesa. Infatti vivere senza proprietà né rendite, che era la forma di garanzia socio-economica indispensabile al mondo ecclesiastico di allora, senza poter mendicare come i frati, era vista come un'utopia e una presunzione. Eppure Francesco e Chiara appoggiati al «Padre degli spiriti» si sentono chiamati a vivere così la loro vocazione nella Chiesa e nel mondo. Ecco perché non vogliono «allontanarsi mai, da essa in nessuna maniera, per l'insegnamento o il consiglio di alcuno» (RsC VI,9: FF 2790), anche se fosse il papa in persona.

La Povertà, quindi, per Francesco e Chiara è un mezzo per entrare nel Mistero di Cristo Povero.

Per Chiara però la Povertà non è solo realtà spirituale o di fede, ma ha anche un aspetto concreto e materiale. Infatti nei suoi Scritti insiste su questi aspetti concreti, appoggiandoli alla concretezza della Povertà di Cristo fin dal suo apparire nel mondo: « Mira, in alto, la povertà di Colui che fu deposto nel presepe avvolto in poveri pannicelli (Cfr. Lc 2,12). O mirabile umiltà e povertà che dà stupore! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra (Mt 11,25), è adagiato in una mangiatoia! Vedi poi, al centro dello specchio, la santa umiltà, e insieme ancora la santa povertà, le fatiche e le pene senza numero ch'Egli sostenne per la redenzione del genere umano. E, in basso, contempla l’ineffabile carità per la quale volle patire sul legno della croce e su di essa morire della morte più infamante. Perciò è lo stesso specchio che, dall’alto del legno della croce, rivolge ai passanti la sua voce perché si fermino a meditare: O voi tutti, che sulla strada passate, fermatevi a vedere se esiste un dolore simile al mio (Lam 1,12); e rispondiamo, dico a Lui che chiama e geme, ad una voce e con un solo cuore: Non mi abbandonerà mai il ricordo di te e si struggerà in me l’anima mia (Lam 3,20) (4LAg 19-26: FF 2904).

Risulta chiaro che il «Privilegio della povertà» è il privilegio di vivere dell'unico privilegio: Gesù Cristo, in una vita nuziale: «perché vi siete sposate allo Spirito Santo, scegliendo di vivere secondo la perfezione del santo Vangelo» (RsC VI,3: FF 2788).

 

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