Massmedia - Cronache Francescane

VeronaFedele, 23 giugno 2011

Fra' Beppe quaranta anni di "Fraternità" (di Fabiana Bussola)

Era il 1965 quando in Italia s’inauguravano l’Italsider e il traforo del Monte Bianco, la sonda Mariner 4 raggiungeva per la prima volta Marte e si chiudeva il Concilio Vaticano II. Quell’anno fu l’inizio per fra’ Beppe Prioli del suo cammino tra i “vuoti a perdere” e della sua scelta di vita. Vivere da volontario per e nel carcere, essere il ponte tra il dentro e il fuori delle celle. La scintilla, un articolo di Famiglia Cristiana, in cui legge la notizia di una condanna all’ergastolo di un coetaneo. La scelta di andare a Porto Azzurro per incontrarlo e dargli conforto, e di suggellare la spinta del cuore, l’intuizione del proprio carisma, è l’avvio di un cammino che oggi, e da molto tempo, fra’ Beppe non fa più da solo. L’iniziale gruppo di volontari della parrocchia di san Bernardino, coinvolto quasi dall’inizio del suo cammino, è diventato un’associazione, “La fraternità”, 40 anni in questo 2008, un lasso di tempo sufficiente perché l’Italsider diventasse “ex”, il traforo del Monte Bianco diventasse il luogo di una terrificante tragedia e su Marte si mandassero i robot.

Lo spirito del Concilio, sottoposto a diverse riletture e affievolimenti, invece soffia ancora, anche in chi continua ad aprire le porte del carcere per testimoniare la speranza. Come quella prima volta, in cui un frate di vent’anni ha portato nel penitenziario dell’Elba la benedizione di Paolo VI. «Erano tutti ergastolani, ma la vicinanza del Papa li ha colpiti a tal punto che mi hanno dato una grande accoglienza. Ero disarmato davanti a loro, non sapevo nulla di quel mondo e i volontari allora erano figure inesistenti. Non c’erano nemmeno gli psicologi e gli assistenti sociali. Grazie a Dio non ho mai avuto paura di incontrare persone che si erano macchiate anche di delitti atroci, ho sempre guardato l’uomo distinguendolo dalla sua colpa. E da loro ho ricevuto e imparato tanto». Fra’ Beppe ricorda gli inizi, la volontà di agire senza sapere bene cosa fare, e di tutto quel tempo di “apprendistato” insieme con i detenuti, cercando di rispondere alla loro domanda: “Che cosa puoi fare per noi?”, spinta anche dallo stupore di vedere quel giovane col saio, che rinunciava ai suoi giorni di visita in famiglia («ma mia madre ha poi capito la mia scelta e mi ha sostenuto»), tanto dedito ma anche tanto solo.

«Ho capito che dovevo lavorare in gruppo, così a Verona ho coinvolto delle persone che si dedicavano ai poveri. Nel ’68 è nata “La fraternità”, subito abbiamo attivato la corrispondenza con i detenuti, prima nel carcere di Porto Azzurro, poi con altri istituti, tra cui il Campone. Allora i reclusi erano un centinaio, la situazione era gestibile, ma mancava qualcosa per la cultura. Così abbiamo creato la biblioteca, che è stata da subito molto apprezzata».

Poi arrivò la legge 354 del 1975, la cosiddetta Gozzini, che diede un ordinamento penitenziario, frutto di 28 anni di elaborazione e oggi al centro di una possibile abolizione. «È da allora che il volontariato in carcere è normato e riconosciuto nel suo ruolo di sostegno morale, per i detenuti e le famiglie, di riferimento per le misure alternative al carcere e le attività culturali – continua fra’ Beppe –. Se ora decidessero di abolirla, si commetterebbe un grave errore, perché significherebbe che l’unica risposta al male è solo la detenzione, un altro male. Invece, vale più un permesso di cento colloqui. So che sui giornali fa molto effetto la notizia di chi in permesso compie una rapina o qualcosa di peggio: ma la realtà è molto diversa. Un permesso è una grande opportunità di incontro e confronto con i familiari, un momento per prendere coscienza e pensare a rinascere. Qui in convento accolgo anche persone che hanno commesso reati pesanti, ma in tutti questi anni solo uno non si è presentato subito. Poi è tornato».

Fra’ Beppe rilegge questi otto lustri con gli occhi dell’impegno personale speso per tutti, in modo indistinto, nessuno escluso. Però ammette una particolare dedizione per gli omicidi, come ne sentisse la profonda richiesta di aiuto a sbrogliare la matassa della propria irrimediabile colpa. «Ci vuole molto tempo per aiutare queste persone a sopravvivere in carcere, a prendere coscienza e iniziare un cammino interiore. Magari passano anche 12 anni prima che chi ha commesso il delitto chieda che cosa è successo realmente quel giorno. Reagire alla detenzione è molto più duro di quanto si pensi: ci si ritrova con un peso enorme, isolati, chiusi dietro una porta blindata, senza lenzuola per evitare gesti suicidi. E quel pensiero arriva quando tutto ti crolla addosso. Per questo è gravissimo lasciarli soli». Davanti a questa disperazione non si può però ignorare il dolore delle vittime. «Il carcere ha una grande virtù: ti costringe a fermarti, a pensare. Ma la certezza della pena non è la soluzione: dobbiamo invocare la certezza della riparazione. E stabilire un ponte con le vittime, con le loro famiglie: per questo chiedo aiuto ai parroci».

Fra’ Beppe sa perfettamente che a suonare il campanello di chi ha perso un proprio caro per violenza, di chi ha subito una grave ingiustizia non è facile: ci si fa coinvolgere, si rischia anche qualche porta in faccia. «Ma se non lo facciamo noi preti, noi religiosi, chi lo fa? Ecco, vorrei una Chiesa a Verona più coraggiosa, più attenta al carcere. Purtroppo, di fronte a questo allarme generale intorno alla sicurezza succede che accogliamo e ascoltiamo di meno, anche nella comunità cristiana. Alcuni preti ci danno una grande mano e poi essere diventati cappellania, per mandato del vescovo Flavio Roberto Carraro, ci aiuta molto. Con il cappellano don Maurizio Saccoman, don Paolo Dal Fior, il diacono Carlo Bernardi e il sottoscritto oltre a don Sergio Pighi quello di Montorio è il secondo carcere, dopo Pisa, in cui la Chiesa è così presente in carcere. Perché il carcere è della Chiesa! Però c’è bisogno di una presa di coscienza più forte. Non è possibile che nella nostra città ci siano conventi e parrocchie che non accolgono persone in difficoltà. Penso ai parenti dei detenuti, che arrivano a Montorio per i colloqui o per i permessi: l’alternativa è andare in un albergo, che sappiamo quanto costa. Perché invece non destinare qualche canonica all’accoglienza, una stanza dove ospitare queste famiglie? Serve questa risposta».

Dopo aver visitato 200 penitenziari, fra’ Beppe dice di non essere stanco, ma a volte ha bisogno di fermarsi, di ripensare il suo agire. Ed è senz’altro grazie ai 30 volontari de “La fraternità”, che si riconoscono non solo nella missione ma anche nel carisma francescano, che i suoi sandali continuato a percorrere le strade del carcere. «Vedo sempre più crimini familiari, più giovani che delinquono per i soldi facili o perché in casa non ci si parla più. Ci sono genitori che ormai non dialogano nemmeno 5 minuti al giorno con i loro figli. Poi quando i ragazzi fanno un guaio grosso, si trovano improvvisamente di fronte a loro in un’ora intera di colloquio e cominciano allora a conoscere veramente chi sono i loro figli».

L’associazione da 15 anni ha a cuore un progetto che dia una risposta alle lunghe attese fuori dalla casa circondariale di Montorio e al disagio di chi per la prima volta deve entrarci, anche solo per fare visita a un parente. «Serve un centro d’ascolto, proprio nei pressi del carcere – afferma fra’ Beppe – perché non è dignitoso che si aspetti fuori in mezzo al nulla, anche per due, tre ore, senza sapere nemmeno cosa fare, a chi rivolgersi, che regole rispettare per poter entrare. Nemmeno c’è un luogo adatto dove lasciare i bambini. Questo spazio è necessario, un dovere della città. Intanto abbiamo aperto le porte della nostra sede, in via Provolo 27, il mercoledì dalle 18 alle 20, e il venerdì, dalle 16 alle 18, come centro d’ascolto, ma è molto distante da Montorio. Non ho fretta, ma spero di poter vedere il sindaco e sapere cosa ne pensa».

Bonario e caparbio, proprio un francescano fra’ Beppe. Anche perché le cose le conosce per averle provate sulla sua pelle. «So cosa significa essere un partente sperduto e addolorato. Anch’io ho avuto un fratello in cella e pure un confratello. Ma mi è servito, perché da allora ho più a cuore le famiglie. E ho continuato ad entrare in carcere lo stesso».

 

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