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Il rischio di un apartheid

Conferenza di Durban: le conseguenze più pesanti sui più poveri

Dopo oltre due settimane di conferenza a Durban, in Sudafrica, i governi hanno trovato un accordo per dare il via libera ai negoziati per un nuovo trattato globale sul clima: i tagli dei gas serra diventeranno operativi dal 2020. La 17ª Conferenza mondiale sul clima ha trovato anche un accordo per il Kyoto2 dopo il 2012 e l’istituzione di un “Fondo verde per il clima” di 100 miliardi di dollari entro il 2020 a favore dei Paesi più poveri.

Ma i movimenti e le realtà della società civile che hanno partecipato al Forum parallelo non sono soddisfatte. La rete internazionale delle Caritas esprime oggi “delusione”, perché l’accordo “lascia il mondo di fronte al rischio di un aumento catastrofico di 4 gradi centigradi delle temperature globali”. “La scienza sta dimostrando che non bastano per fermare la diffusione della siccità diffusa – ricorda Caritas internationalis –, i milioni di migranti e il crollo della produzione alimentare”. Abbiamo raggiunto telefonicamente a Durban Alberto Zoratti, dell’organizzazione dell’economia solidale “Fair”, che fa parte della rete globale “Climate justice now”.

 

Secondo voi l’accordo di Durban è “debole e insufficiente”. Perché?

“Perché è in atto una sorta di ‘apartheid climatico’ nei confronti dei Paesi più poveri. Ossia si rischia che buona parte del mondo debba subire le conseguenze dei problemi creati da altri. I contenuti di questo accordo dimostrano che i governi della Conferenza non sono all’altezza di questa situazione. Hanno spostato in avanti tutta una serie di impegni che dovrebbero aver già preso da anni”.

Eppure l’Ue saluta l’accordo come una “svolta storica”...

“Certo, per l’Ue è una svolta storica perché finora nella Conferenza delle parti è stata una comparsa. Stavolta è diventata protagonista. Questo può essere un elemento positivo. Il problema è che la Conferenza delle parti non ha prodotto un risultato decente. È chiaro che siamo tutti soddisfatti perché il Protocollo di Kyoto si è salvato. Ma ricordiamo che il protocollo di Kyoto già esisteva e stavamo rischiando di perderlo. Per cui abbiamo evitato il peggiore dei disastri”.

Quali conseguenze dell’ulteriore rinvio dei tagli dei gas serra al 2020?

“La comunità scientifica ci sta dicendo da anni che bisogna invertire la tendenza, ossia diminuire l’emissione di gas climalteranti, il famoso picco di emissioni, da raggiungere al massimo entro il 2015. Già al vertice di Copenaghen c’era stata una mediazione al ribasso, accettando un aumento della temperatura media di 2 gradi centigradi, che provoca comunque eventi climatici estremi (alluvioni e siccità). Spostare tutto al 2020, per un accordo generale che comprenda anche i Paesi emergenti, su basi non vincolanti, vuol dire aspettare altri nove anni per invertire questa tendenza. Perché il rischio non è di aumentare la temperatura media solo di 2 gradi. Gli esperti dicono che se si continua in questo modo arriveremo a un aumento di 3,5-4 gradi. È una prospettiva devastante per le generazioni che verranno”.

Alluvioni e siccità già causano 350.000 vittime l’anno. La situazione peggiorerà?

“Certo. Aumenteranno le vittime, il numero dei profughi ambientali. Già siamo testimoni di questo cambiamento climatico, che colpisce ogni parte del mondo. In Italia in un mese abbiamo avuto tre alluvioni. Il problema non è l’alluvione in sé, ma la sua ripetitività. Gli eventi alluvionali più gravi, che una volta avvenivano ogni secolo, oggi si verificano ogni 10/15 anni. Se fanno vittime e procurano costi economici in un Paese come l’Italia, figuriamoci nel resto del mondo, dove le economie e i Paesi sono molto deboli. È un disastro umanitario, non solo economico”.

A Durban erano presenti anche rappresentanti delle religioni…

“Sì, è una mobilitazione molto trasversale. Perché il cambiamento climatico non tocca solo gli interessi dei gruppi ambientalisti ma i bisogni di tutti. A Durban ho trovato un’esperienza pan-africana molto interessante, ‘Noi abbiamo fede. Agire ora per il cambiamento climatico’ (www.wehavefaithactnow.org), composta da realtà religiose diverse: cristiani, musulmani, ebrei, hindu. Insieme chiedevano un cambiamento di rotta nel sistema economico, non solo nelle regole generali. C’erano anche tanti missionari. In questi appuntamenti paralleli della società civile c’è stato il salto di qualità che invece i governi non hanno fatto. È stata unita la lotta al cambiamento climatico con la lotta alla povertà, per chiedere una società diversa, non predatoria. Saper collegare l’economia internazionale con il cambiamento climatico e le economie locali. Questa è la chiave di volta per leggere meglio i fenomeni”.

Nonostante il senso di sconfitta e delusione, cosa portare a casa?

“Da un punto di vista personale c’è amarezza, perché ti rendi conto quanto sia difficile far sì che gli interessi di tutti, che dovrebbero essere scontati, non riescano a prevalere sugli interessi particolari. È paradossale come non si riesca ad essere empatici con il resto dell’umanità, nonostante siamo tutti genitori o figli. Dal punto di vista politico c’è ancora motivazione. Se le cose non cambiano anche noi dovremo cambiare strategia, ritrovare la forza per creare rete con altre realtà, laiche o religiose che siano, perché solo l’unione produce cambiamento. Dovremo fare pressione anche a livello nazionale e locale. Le cose devono cambiare anche nei nostri comuni, nelle nostre regioni, sui piani agricoli e rurali, infrastrutturali, urbanistici. Perché il cambiamento climatico rientra anche nella gestione del traffico, del riscaldamento di casa. Il passo successivo è rinsaldare le reti, allargarle e ritornare all’attacco a tutti i livelli. Non c’è alternativa, purtroppo”. (www.agensir.it)

 

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