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Una riflessione profonda vista dal ministro che raccoglie le pene e le gioie dei credenti

di Maurizio Mastrofini

Prendendo in prestito la celebre espressione del sociologo Bauman sulla società liquida, si potrebbe dire che la confessione sia oggi un sacramento liquido. Nonostante l’insistenza dei papi, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI – per restare agli anni recenti – sull’importanza di questo sacramento per non farlo cadere in disuso, il parere dei teologi è quanto meno più articolato. O almeno è particolarmente articolato il percorso suggerito da Basilio Petrà, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze. Nel suo Fare il confessore oggi, il teologo descrive come sia cambiata la percezione del peccato e dunque il ruolo del confessore. Per ascoltare i peccati dei propri fedeli occorrono diverse doti: esperienza, pazienza, capacità di empatia, sensibilità per comprendere cosa davvero stia dicendo la persona lì nel confessionale.

Già perché il confessore non deve giudicare la natura del peccato, bensì la qualità umana del cosiddetto peccatore. In particolare il prete deve verificare se il suo interlocutore davvero comprenda la mancanza commessa ed abbia la ferma intenzione di non ripeterlo più. Qui entriamo nella piena liquidità del sacramento. Infatti secondo l’impostazione teologica più attenta alla libertà interiore e meno alla forma ed alla formalità, la pratica di questo sacramento è passata in una fase nuova. Dalla visione e prassi ascetica della confessione quotidiana, ancora in voga per molti, si va ad un’idea (il vecchio catechismo dei bambini, ad esempio) per cui la confessione è necessaria per accedere alla comunione.

E così se ne snatura la caratteristica di sacramento nel vero senso della parola, facendolo dipendere da qualcos’altro. I moralisti più attenti e sensibili all’apporto delle scienze umane e delle dinamiche interiori sanno poi che oggetto della confessione è il peccato grave. Tuttavia i confessori sanno bene che un penitente può spesso confessare una colpa grave (un adulterio, un furto…) solo perché così qualificata dalla dottrina della Chiesa mentre la convinzione personale è del tutto differente. E assolvere diventa del tutto inutile. Ecco allora che si ritorna al sacerdote ed alla sua capacità di saper chiarire e non sentenziare. Impegno difficile che sottolinea quanto sia profondo il cambiamento del ruolo del prete: per i fedeli non è più un giudice, non è un maestro di morale e tanto meno un professore di moralismo.

Deve riuscire a prendersi cura del penitente, aiutarlo, comprendere i sintomi e illuminarne il significato al penitente stesso che a volte può rifiutarsi di vederli. Abbiamo così davanti a noi, in questo manuale, un libro per preti, però  dietro il quale, in controluce, si legge tutto il cambiamento che la Chiesa sta attraversando. Ed è inarrestabile. Così è centrale la buona formazione del sacerdote. Lo hanno capito anche i vescovi statunitensi: nei loro due ultimi rapporti annuali sugli abusi, sulle cause del fenomeno, sulla formazione dei preti dopo il Concilio, hanno ammesso che la solida formazione teologica non basta. Serve un’altrettanto solida formazione umana. Ecco il punto dolente e la sfida del futuro.

 

Petrà B., Fare il confessore oggi, EDB, Bologna 2012; pp.240, euro 21,5

www.vaticaninsider.lastampa.it  - Roma, 25/04/2012

 

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