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Gli assalti alle Chiese in Nigeria e Kenya che hanno seminato morte e nel racconto di Padre Stefano Giudici, che dal 2009 guida la missione di San Giovanni Battista nella baraccopoli di Korogocho

di Giacomo Galeazzi

«Qui non siamo in Nigeria. Finora la violenza in Kenya non ha mai avuto colorazioni religiose. La base ci accetta, il vertice meno. Occorre capire chi ci sia davvero dietro la granata lanciata in chiesa». Dal 2009 padre Stefano Giudici guida a Nairobi la missione San Giovanni Battista nella baraccopoli di Korogocho, uno degli angoli più disperati dell’Africa. La Nigeria è da tempo nel mirino di Boko Haram, la setta islamica che, con centinaia di morti, cerca di imporre la Sharia nel paese. Il «contagio» fondamentalista si sta estendendo al resto dell’Africa? «Finora in Kenya la presenza cristiana e i luoghi di culto non erano mai finiti sotto tiro. Proprio ieri abbiamo organizzato una manifestazione per il recupero di bambini di strada sniffatori di colla e alcolisti. Sono intervenuti numerosi rappresentanti delle altre confessioni, abbiamo pregato insieme. I rapporti interreligiosi sono buoni, il clima di tensione c’è per la lotta al terrorismo, non per conflitti tra le diverse fedi.

Le fiamme e il sangue in chiesa sono una tragica, allarmante novità per Nairobi. Dio non voglia che sia l’inizio di una estremizzazione che strumentalizzi la religione per obiettivi di potere politico ed economico». Le autorità accusano gli islamisti somali. Lei vede un’altra «mano»? «Attenzione a non creare un capro espiatorio. Occorre andare oltre le prime ricostruzioni dell’accaduto e capire veramente chi ci sia dietro l’attentato compiuto pochi istanti prima della messa. Il mese scorso una bomba in un terminal di autobus ha causato nove morti e da allora i controlli nei luoghi pubblici sono molto severi. Va accertata la natura terroristica del gesto. Qui la nostra azione pastorale è ben accolta dalla gente. Al vertice le incomprensioni non mancano, come si è visto durante il referendum costituzionale, ma il confronto non è mai sfociato in violenza e ha riguardato principalmente l’impostazione valoriale da conferire all’ordinamento. Con la componente musulmana il dialogo non si è mai interrotto».

I somali musulmani sono numerosi in Kenya. Si rischia la guerra di religione? «Qui è attiva Al Shabaab, e a Korogocho c’è un intero quartiere somalo e musulmano. Oggi il Kenya è impegnato in una difficile azione militare in Somalia sotto l’egida dell’Unione africana per difendere i propri confini dai terroristi. Finora la religione non è mai stata fonte di violenza, ma nelle varie comunità di credenti i fondamentalisti cercano la radicalizzazione.

Quindi è reale in Kenya il pericolo di un’escalation di attacchi da parte degli Shabaab somali. E, infatti, appena ieri ho ricevuto una comunicazione dall’ambasciata italiana nella quale si metteva in guardia da possibili attentati e si esortava alla massima prudenza».

Nella mail dell’ambasciata si parlava di pericoli specifici per i luoghi di culto? «No, si trattava di un’allerta generica, indirizzata dall’ambasciata italiana ai connazionali presenti in Kenya. Ci è stato rivolto un invito-standard a essere prudenti, su segnalazione probabilmente delle autorità locali. Non c’erano sollecitazioni o elementi riferibili a chiese, parrocchie, missioni. Solo una cautela, tanto più normale e comprensibile visto il momento particolare nel quale la guerra al terrorismo viene condotta sia sul territorio nazionale sia al di là dei confini. Le verifiche si sono fatte stringenti e si viene controllati anche all’ingresso dei supermercati e dei cinema.

Purtroppo stavolta la violenza ha scelto come bersaglio un’indifesa comunità di fedeli in preghiera. Noi restiamo qui, non abbiamo paura, non scappiamo. Siamo tra gente che apprezza il nostro impegno e comprende il senso della nostra presenza in un posto così carico di problemi, emergenze, sfide ma anche potenzialità di bene».

 

www.vaticaninsider.lastampa.it - Città del Vaticano 30/04/2012

 

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