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Il 22 maggio 1712 papa Clemente XI innalzava agli onori degli altari iscrivendolo nell’albo dei Santi fra Felice da Cantalice. A trecento anni di distanza, in comunione con i fratelli della Provincia Romana, vogliamo ricordare la figura di questo Confratello, il primo santo del nostro Ordine. L’anno tricentenario coincide con l’anno dell’84° Capitolo generale diventando così occasione privilegiata per richiamare le radici della nostra storia e aprirci ad accogliere lo Spirito per essere memoria vivente della presenza di Cristo nel mondo.

Lettera Circolare in occasione del 300° anno della canonizzazione di San Felice da Cantalice (1515-1587)

Prot. N. 00289/12

Carissimi Fratelli,

Il 22 maggio 1712 papa Clemente XI innalzava agli onori degli altari iscrivendolo nell’albo dei Santi fra Felice da Cantalice. A trecento anni di distanza, in comunione con i fratelli della Provincia Romana, vogliamo ricordare la figura di questo Confratello, il primo santo del nostro Ordine. L’anno tricentenario coincide con l’anno dell’84° Capitolo generale diventando così occasione privilegiata per richiamare le radici della nostra storia e aprirci ad accogliere lo Spirito per essere memoria vivente della presenza di Cristo nel mondo.

Inclinate l’orecchio del cuore ed obbedite alla voce del Figlio di Dio.

Custodite nelle profondità di tutto il vostro cuore i suoi precetti

e adempite perfettamente i suoi consigli.

San Francesco d’Assisi, Lettera al Capitolo generale e a tutti i frati (FF, 216).

I. Breve profilo biografico di fra Felice

1. Anni difficili per un Ordine nato da poco.

Felice si fece cappuccino verso la fine del 1543, bussando alla porta del Convento di Cittaducale. Nato a Cantalice, piccolo centro della valle reatina, nel 1515, Felice era in quegli anni garzone alle dipendenze della ricca famiglia dei Picchi di Cittaducale. L’anno di noviziato lo trascorse presso il convento di Anticoli di Campagna, come allora si chiamava Fiuggi, nello stesso luogo dove alcuni anni prima era improvvisamente morto una delle grandi personalità dell’Ordine, fra Francesco Tittelmans da Hasselt (Belgio). Alunno e docente della prestigiosa università di Lovanio, il Tittelmans era entrato tra i frati dell’Osservanza negli anni 1521/1522, ma essendo venuto a conoscenza dell’esistenza dei frati cappuccini, si mise in viaggio per l’Italia e a Roma nel 1535/1536, fu accolto nel nostro Ordine. A poco meno di un anno dal suo ingresso nell’Ordine fu eletto Vicario provinciale della Provincia di Roma, ma il 12 settembre 1537 morì improvvisamente mentre era in visita ai frati nel convento di Anticoli di Campagna (Fiuggi).

Per la Provincia romana si spegneva una grande speranza, ma pochi anni dopo, nello stesso luogo, nasceva una nuova luce, non più un uomo dotto, ma un illetterato con la stoffa della santità. Felice era uomo semplice, si vantava di conoscere solo cinque lettere, quelle delle piaghe di nostro Signore. Francesco Tittelmans e Felice da Cantalice sono due cappuccini, molto differenti fra di loro per provenienza e formazione, vicinissimi però per zelo e amore all’Ordine; essi testimoniano come fin da principio la nostra fraternità ha accolto sia lo studioso che l’umile figlio di contadini, il dotto e l’analfabeta, purché animati dal desiderio e dalla volontà di seguire Cristo.

Quando fra Felice chiese di poter vestire il nostro abito si era da poco consumato un fatto che rischiò di compromettere seriamente gli inizi della nuova “riforma” cappuccina. Era infatti trascorso poco più di un anno da quando fra Bernardino Tomassini da Siena, detto l’Ochino, Vicario generale dell’Ordine, era passato alla Riforma protestante e Papa Paolo III era intenzionato a sopprimere la neonata famiglia francescana. Con la sua santità, fra Felice contribuì al superamento di quella crisi dell’Ordine. Egli, infatti, vivendo con autenticità il suo essere “cappuccino”, dimostrò concretamente quale fosse il proposito che animava la nostra «Riforma»: ritornare all’originaria ispirazione, cioè alla vita e Regola del nostro Padre san Francesco, essere suoi figli e discepoli, e come lui vivere di Cristo nell’obbedienza alla Chiesa.

Giorno dopo giorno, per quarant’anni (dal 1547 al 1587), da umile questuante, percorse le vie di Roma, bussando ad ogni porta per chiedere l’elemosina, ma allo stesso tempo lasciando la parola bella del Vangelo detta come lui sapeva dire: cantando con i bambini, ascoltando chi gli confidava le proprie pene, accogliendo quanto gli veniva offerto. Raccontano le cronache che il suo sguardo era sempre rivolto a terra, ma questo non gli impediva di vedere e di cogliere il bisogno di chi gli stava di fronte: alleviare il dolore, confortare l’afflitto, curare il male fisico o morale. Chi incontrava il questuante cappuccino fra Felice non partiva mai a mani vuote. e le mani di fra Felice erano quelle che avevano ricevuto dalla Madre di Dio il Bambino Gesù, da lui teneramente abbracciato: così ce lo ha consegnato l’iconografia!

2. Uomo del popolo e uomo di Dio

Lo stare quotidianamente in mezzo alla gente di ogni condizione sociale lo portava ad incontrare le tante miserie spirituali e materiali del suo tempo. Tutto raccoglieva nella sua bisaccia e, rientrato in convento, la svuotava nelle mani del suo guardiano: c’era il pane, c’erano le fave, c’era quanto gli era stato dato, ma c’erano anche tutte le disgrazie che aveva visto, i bambini che aveva fatto cantare, il pianto di tanti, il buon cuore di chi non gli aveva negato l’elemosina. Tutto e tutti fra Felice, contento, portava in chiesa e per loro offriva al Signore la sua preghiera e il resto della sua giornata cioè, di solito, quasi tutta la notte. A questo aggiungeva le penitenze di ogni genere per impetrare l’intervento di Dio per tutti, poveri o ricchi, tutti bisognosi della misericordia di Dio.

Lo stare in mezzo alla gente non lo distraeva dalla sua unione con Dio, anzi era il suo modo di contemplare il mistero dell’amore di Dio per gli uomini. Potremmo dire che fra Felice era un contemplativo sulle strade. In mezzo alla gente stava con allegria, ilare, in modo semplice, caratteristiche che lo rendevano vicino a tutti. Un vero frate del popolo! Lo conoscevano come frate “Deo gratias”. Era, infatti, questo il suo motto, il suo modo di ringraziare per l’elemosina ricevuta. Se poi qualcuno si burlava di lui e lo giudicava un pazzo, egli ne godeva interiormente e riusciva a conquistarsi l’amicizia anche di questi, perché li accoglieva con la pazienza di Dio che sa aspettare il peccatore e mai smette di amarlo.

Era talmente contento della sua condizione di fratello questuante che soleva dire: “Io sto bene, meglio che lo papa. Il papa ha delle fastidi et travagli, ma io mi godo questo mondo: et non cambiaria questa sacoccia col papato e col re Filippo insieme!” Il suo modo diretto e schietto lo portava a scambiare delle battute col Papa Sisto V o con San Filippo Neri, come anche con il futuro cardinale Cesare Baronio o con San Carlo Borromeo. Aveva battute sagaci con gli alunni del Collegio Germanico, ma anche con qualche dama della nobiltà romana, senza mai neppure un pizzico di malizia! I santi sanno ridere e far sorridere, nascondendo, come ha fatto fra Felice, l’ardore di consegnarsi a Cristo, senza che altri se ne accorgano. Questa è l’umiltà di chi non sa altra parola che quella di fare la volontà di Dio.

3. In mezzo a loro c’era stato un santo

La sua spiritualità, apparentemente tanto semplice, era incentrata solidamente sulla persona di Cristo, di cui ammirava in particolar modo il presepe e la croce. Teneva in grande venerazione la Madonna e San Francesco, praticando una preghiera dagli accenti fortemente affettivi e, al momento di ricevere la comunione, si commuoveva fino alle lacrime. Tutto ciò fece di lui un vero figlio di San Francesco, un frate capace di andare verso tutti, ricchi e poveri, cardinali e mendicanti, dotti e illetterati e sempre con lo stesso atteggiamento: accoglienza di chi incontrava, rispetto per l’altro, amore per la persona che gli stava davanti.

I frati che gli vissero accanto e poterono beneficiare dal suo quotidiano peregrinare per le vie di Roma, sperimentarono il suo zelo per la preghiera chiamati da lui sia nel bel mezzo della notte per la preghiera di mattutino sia all’alba del nuovo giorno per quella delle lodi. Furono però ugualmente sorpresi quando alla sua morte videro l’interminabile processione di gente che accorreva a venerare la sua salma. C’erano tutti, i bambini e i cardinali, la gente semplice e il nobile, il medicante e Papa Sisto V. Ora era Roma che andava dal santo frate questuante invertendo quel cammino che per tanti anni fra Felice aveva fatto andando in mezzo alla gente.

In quel giorno che vide fra Felice nascere al cielo anche se la gente era tanta intorno alle sue spoglie mortali, la voce era una sola e lo proclamava “santo”. I miracoli che si diceva avevano segnato il tempo della sua vita terrena ora venivano raccontati: erano molti. Anche tra i suoi confratelli c’era chi rimaneva stupito. Fra Felice dava così la sua ultima lezione, quella che autenticava la sua intera esistenza: tutto aveva vissuto in umiltà, nascondendo quanto il Signore concedeva alla sua preghiera, alle sue mortificazioni, al suo consegnarsi senza trattenere nulla per se stesso, ma tutto chiedendo e donando per il bene di chi durante la giornata aveva incontrato.

II. Il messaggio di fra Felice per noi oggi

1. Essere dono ai fratelli

La caratteristica di San Felice, quella che lo ha consegnato alla nostra memoria, è il suo essere stato un frate, un frate questuante. Avvicinava la gente per chiedere, per mendicare, ma soprattutto per donare: donare Gesù, donare la pace interiore attinta dalla preghiera, donare saggi consigli suggeriti dalla ricca esperienza di vita. Nella povera e laboriosa famiglia dalla quale proveniva, aveva imparato la preziosa lezione di farsi dono ad ogni bisognoso, secondo il prezioso monito del Maestro Gesù: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).

Ognuno di noi ha ricevuto dal Signore questa meravigliosa capacità di farsi dono. E oggi il santo confratello ci sprona a vivere nel feriale l’affascinante avventura di essere dono per tutti, perché è nell’esercizio di una vita generosamente donata che si consegue lo sviluppo integrale della nostra personalità, come anche conferma il Vaticano II: “L’uomo è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa e non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di se “(GS, 24).

Non di rado, però, fra Felice aveva fatto anche l’esperienza del duro rifiuto o di una porta sbattuta in faccia, ma la sua risposta era anche in questi momenti: “Deo gratias!” Rinnovava così la perfetta letizia incarnando nella propria vita quanto aveva imparato da San Francesco. Non era di quelli che si irritano per una parola che sembra ingiuria della loro persona o per qualsiasi altra cosa che è loro tolta (Adm. XIV). Da uomo veramente pacifico sopportava ogni cosa per amore del Signore nostro Gesù Cristo, conservando la pace nell’anima e nel corpo (Adm. XV) Questo la dice lunga sul paziente lavoro compiuto su stesso, sulla sua accettazione paziente della correzione altrui.

2. Contemplativi nell’azione

Vi è poi in San Felice una seconda caratteristica: la straordinaria capacità di accogliere tutti e tutto e di trasformare ogni situazione in preghiera da innalzare al Signore nel segreto della notte. L’agiografia pone in particolare rilievo proprio il suo spirito orante: “Fra Felice era un’anima fatta per la contemplazione. Senza sforzo alcuno, si concentrava su pensieri di cielo pure per le vie di Roma, tra il trambusto delle carrozze e il vociare dei passanti. Ma ciò non poteva saziare il suo spirito assetato di divino. E allora pregava di notte. Le ore di adorazione notturna trascorrevano senza che egli se ne accorgesse” (Santi e Santità nell’Ordine Cappuccino, Roma 1980, vol I, 48).

È un prezioso messaggio per noi, fratelli carissimi, da accogliere con cuore aperto e da mettere in pratica. La vita di preghiera risulta ancora oggi come il criterio più sicuro dell’autenticità del nostro essere consacrati. Giustamente si afferma a modo di slogan “tu sei quel che preghi”, cioè la preghiera rivela la qualità della tua vita. E’ appunto per questo che qualcuno, parafrasando un noto proverbio, afferma: “Dimmi come preghi e ti dirò chi sei”. La preghiera è un esercizio vitale che qualifica tutte le ore della giornata. “Pregare – aggiunge Padre Mariano da Torino – non molto…, ma bene; oppure, molto e bene. Pregare perché è bello, perché è giusto, perché è soave, e non tanto perché è doveroso. Compiere questo dovere come un piacere, il più grande”(R. Cordovani (a cura di), Assoluto e relativo, Roma 2007, 98).

Gesù parla della preghiera come una “necessità”: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi” (Lc 18,1). Sì, proprio così! La preghiera non è un di più o qualcosa di superfluo o addirittura di inutile: è invece una necessità; è un impegno essenziale al nostro vivere quotidiano; è un bisogno insopprimibile del nostro cuore. “Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo – afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica-, perché l’uomo è stato creato da Dio per Dio” (n.27). E il bisogno dell’incontro con Dio si fa “sete” struggente: “Di te ha sete l’anima mia” (Sal 62,2); “come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (Sal 41,2-3).

3. I cappuccini: frati del popolo

Il santo Confratello inoltre era un religioso sempre disponibile e accogliente. L’accoglienza faceva di lui una persona ricercata da tutti. Non perché aveva un titolo oppure un ruolo certificato ed approvato dalla società, ma perché aveva il titolo di autentico credente in Cristo certificato dal suo modo di vivere. Poteva dire di Dio che era il suo unico bene! È qui che la sua vita assume un significato che vale in ogni tempo e in ogni luogo. Nel nostro tempo siamo tutti portati a ricercare titoli e ad essere dei protagonisti, rischiando così di escludere Cristo dalla nostra storia personale.

I cappuccini sono i frati del popolo. Questa è la nostra tessera di riconoscimento di tutti i tempi. Tuttavia, per una concreta conferma anche oggi di questa singolare tessera, resta per noi l’impegno di attuare una piena e convinta apertura a Dio al fine di risultare aperti, accoglienti e disponibili ad ogni fratello bisognoso. Proprio così! Fra Felice infatti è stato uomo di Dio e frate della gente. Accogliere vuol dire lasciar passare la grazia e la salvezza del Signore nell’incontro con il fratello. La diaconia dell’accoglienza comporta sempre un uscire da sé per aprirsi all’altro; accogliere ciascuno come “unico” e come “altro” dalle nostre attese e dai nostri schemi.

Infine, sappiamo che i contemporanei di San Felice, uomini potenti e gente semplicissima, colti e analfabeti, tutti lo ricercavano in primo luogo per la sua santità, perché era autenticamente un uomo di Dio. Faceva parte della schiera di coloro che vivevano la povertà con letizia e perciò era libero sia da cupidigia che da avarizia (Adm. XXVII). Oggi siamo portati a dimenticare facilmente che ad attirarci tanta simpatia e a fare di noi cappuccini per molto tempo uno degli Ordini più ammirati fu proprio la pratica conseguente della povertà. San Felice incarna quel tipo di povero volontario capace di armonizzare sia povertà esteriore che interiore, perché oltre a non possedere nulla non si adirà ne si turba per alcunché (Adm. XI). Vediamo come in lui “il nulla di proprio” raggiunge il suo più alto livello, facendo di lui un uomo veramente libero.

Risuona chiaro anche per noi l’invito di Gesù al distacco dai beni della terra (casa, campi, fratelli, sorelle, figli, padre, madre… Mc 10,29); qui emergono due aspetti essenziali della povertà: quello effettivo e quello affettivo, cioè il distacco reale, concreto, pratico da ogni possesso e il distacco del cuore. Si tratta di non appoggiare il cuore su nessun bene creato per tendere a possedere l’unico vero Bene, Dio. Soltanto Dio può rispondere pienamente a tutte le esigenze del nostro cuore e del nostro spirito; soltanto Dio può colmare gli immensi vuoti del nostro mondo interiore.

Fratelli carissimi, San Felice, il primo cappuccino ad essere canonizzato, ha aperto una lunga schiera di frati che al pari di lui sono andati alla scuola del Serafico Padre San Francesco. Essi rappresentano la vera ricchezza del nostro Ordine, ma sarebbe grande vergogna per noi se ci limitassimo a raccontare e a predicare le cose da loro compiute, mentre essi le fecero per davvero! (Adm. VI) In quest’ottica il ricordo di San Felice diventa per noi oggi un forte richiamo a vivere anzitutto la nostra consacrazione religiosa, i voti, con estrema coerenza. In un mondo che ha smarrito il senso di Dio, che non parla più di Lui e tantomeno a Lui, noi siamo chiamati a diventare un richiamo fortissimo a riscoprire queste dimensioni essenziali di ogni vita. Siamo chiamati a farlo con umiltà e letizia.

Roma, 18 maggio 2012

Festa liturgica di San Felice da Cantalice

Fr. Mauro Jöhri

Ministro generale OFMCap

 

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