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di Roberto Catalano

Il viaggio del papa in Sri Lanka pone i riflettori su un Paese che sta faticosamente rialzandosi dopo trenta anni di guerra che hanno lasciato il segno. Molte le speranze che la presenza di Francesco aiuti il processo di riconciliazione.

Mentre in Italia l’orologio segnava le ore 4, stamattina, papa Francesco atterrava al Bandaranaike Airport di Colombo, distante un’oretta di auto dalla capitale dello Sri Lanka, ma a due passi da Negombo, cuore del cristianesimo srilankese.

Qui, infatti, c’è la più alta concentrazione di cattolici dell’isola di Ceylon (in tutto circa il 6,7 per cento della popolazione con l’1 per cento di protestanti di varie denominazioni a fronte del 70 per cento di buddhisti di tradizione theravada, del 12 per cento di indù e del quasi 10 per cento di musulmani). Da questo angolo di terra, nelle vicinanze di Colombo, viene il numero più elevato di sacerdoti e suore, che operano nel Paese del sub-continente e, ormai, anche in vari Paesi del mondo. Cordoni di folla, e non solo cristiani, hanno accolto Papa Francesco, che ha scelto con coraggio di visitare quella che un tempo era il gioiello dell’Oceano indiano e che a fatica sta uscendo da una delle guerre più crudeli e tremende dell’ultima metà di secolo.

 

Qui sta il senso della visita di Bergoglio in questa parte di mondo, colpita fra l’altro anche dallo tsunami dieci anni fa con un numero incalcolabile di vittime. Il Card. Malcolm Ranjit, arcivescovo di Colombo, in una intervista rilasciata alla Radio Vaticana ha sottolineato proprio questo aspetto: «Ci troviamo - ha detto - in un momento importante della storia del nostro Paese perché abbiamo avuto per 30 anni una guerra che ha causato molti morti, molta distruzione; ora è finita. Ma noi non abbiamo ancora la pace. Per questo il Santo Padre potrebbe fare un appello alla riconciliazione in questo Paese perché i cuori sono ancora lacerati, sono ancora feriti. C’è bisogno di una vera riconciliazione dei cuori».

Quello che si è combattuto fra le due etnie principali, quella singalese e quella tamil, non è stato un conflitto religioso, come alcuni avrebbero voluto far credere, anche se abilmente manipolato a livello politico. Entrambe le etnie, infatti, hanno al loro interno una nutrita presenza cristiana: i singalesi a fronte di una maggioranza buddhista e i tamil all’interno di quella indù. Quella guerra ha una storia lunga, legata anche ai retaggi coloniali e alle scelte dei primi governi del Paese indipendente alla fine degli anni Quaranta e in quelli Cinquanta. Dopo una stretta collaborazione fra i due gruppi per la costruzione di uno Sri Lanka, gli equilibri presto s’incrinarono. Infatti, già dal 1930 si era formato un forte movimento di identità singalese-buddista ed era progressivamente cresciuto identificando l’elemento razziale e linguistico (singalese e sinhala rispettivamente) con quello religioso (buddismo). Questo accento sulla polarizzazione politica in nome del binomio razziale e del religioso ebbe un fortissimo impulso fra il 1954 ed il 1956 con le celebrazioni per i 2.500 anni della nascita di lord Buddha (il Buddha Jayanti).

Già nelle seconde elezioni democratiche del Paese libero, tenutesi nel 1952, Solomon Bandaranayake, cavalcando la tigre dell’identità buddista singalese, aveva di poco fallito il successo pieno che arrivò comunque regolarmente 4 anni più tardi. Dopo aver lasciato il partito precedentemente al Governo, l’United National Party (UNP), questo anglicano tornato al buddismo, aveva formato lo Sri Lanka Freedom Party (SLFP) che mobilitò le masse grazie all’appoggio dei monaci buddisti che convogliarono a suo favore i voti delle masse singalesi. Il nuovo presidente non durò molto a lungo. Come spesso accaduto nel sub-continente - dai tempi del Mahatma in poi con Indira e Rajiv Gandhi in India, i Bhutto in Pakistan e due generali in Bangladesh - anche Bandaranayake cadde vittima della violenza: fu ucciso da un monaco. La miccia dell’intemperanza religioso-razziale era stata però innescata e se da una parte i singalesi si identificavano ormai attorno al buddismo, i Tamil si identificarono sempre più nell’induismo. Nel 1972 una nuova costituzione sanciva il trinomio Sri Lanka, sinhala, buddismo: «La Repubblica di Sri Lanka darà al buddismo il posto di preminenza e sarà quindi dovere e privilegio per lo stato di garantire e promuove lo spirito buddista».

Il vedersi nel giro di pochi decenni relegati a cittadini di seconda categoria ha generato in molti tamil odio e desiderio di rivalsa. Da qui la guerra civile iniziata nel 1983 e aggrovigliatasi in episodi di violenza inaudita sia da una parte che dall’altra. Nel corso di quasi trent’anni si sono perse migliaia di vite umane (non si azzardano cifre. Il 40 per cento della spesa pubblica per anni era la cifra investita nel settore della difesa o della sicurezza nazionale. Si è vissuto nel terrore dal momento in cui ci si è resi conto che LTTE, il fronte di liberazione nazionale Tamil, faceva sul serio ed era pronto a tutto. Nulla e nessuno si è salvato: né i villaggi che hanno visto stragi anche di donne e bambini, né la capitale che ha sentito l’esplosione di autobombe, né i templi che per anni hanno portato i segni delle ferite. Non sono stati risparmiati nemmeno i grandi hotel dove passavano i turisti. In questi decenni si sono succeduti vari governi, passando da una politica di richiesta di aiuto ai vicini, come fece il Presidente Jayawardene negli anni ’80 con l’India, al pugno forte come nei primi anno ’90 ha imposto Premadasa. Dopo il ritorno della famiglia Bandaranayake - con Chandrika Kumaratunga, figlia del leader scomparso eletta Presidente della Repubblica e l’anziana madre, signora Bandaranayake, già Presidente in passato, nominata primo ministro - la guerra è continuata fino al 2005 quando fu eletto alla presidenza Percy Mahendra Rajapaksa. Rajapaksa ha posto termine alla guerra sterminando i quadri dirigenti della guerriglia Tamil e cercando, poi, una politica di riconciliazione nazionale. Di fatto ha dominato, sfiorando gli eccessi di una dittatura. Sebbene il conflitto sia terminato da anni, esistono ancora delle dolorose ferite all’interno dell’isola. Da anni ha, poi, preso forma il Bodu Bala Sena, un gruppo anche politico di fondamentalismo buddhista, guidato da monaci theravada, fenomeno inedito nel panorama di questa religione.

A sorpresa, ai primi di gennaio 2015 il popolo srilankese ha scelto come nuovo presidente Maithripala Sirisena, che ha messo la parola fine, almeno per ora, all’era di Mahinda Rajapaksa, molto contestato sia per i suoi metodi per porre fine alla guerra, sia su come ha gestito con giochi tutt’altro che chiari il periodo post-bellico.

La visita del Papa si spera che porti un tocco capace di guarire queste ferite. Francesco toccherà due punti cari al cuore singalese. Si recherà a Madhu, il santuario che si trova non lontano da Mannar, nel cuore della etnia tamil, dove si venera la Madonna cara a tutti gli abitanti dell’isola, sia singalesi che tamil, e anche buddhisti e indù. Un secondo momento fondamentale sarà la canonizzazione di Joseph Vaz, il primo santo del Paese. «Joseph Vaz – ha dichiarato il Card. Ranjit - era il secondo fondatore del cattolicesimo in Sri Lanka. Dopo l’occupazione degli olandesi c’è stata una diminuzione dei cattolici a causa della persecuzione; i cattolici erano sospettati di essere spie dei portoghesi. Per questo motivo siamo stati duramente perseguitati: i cattolici hanno vissuto 30 anni senza sacramenti, e Joseph Vaz ha lasciato l’India per andare in Sri Lanka, dove ha fatto una vita veramente eroica.  Ha passato anche due anni in prigione a Kandy ma è riuscito a salvare la fede della gente».

Una visita ai confini del mondo, per usare un termine caro a questo papa, dove lo Sri Lanka è stato relegato dall’opinione pubblica internazionale. Una scelta coerente al papa della Chiesa in uscita.

fonte: Città Nuova

 

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