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Francesco ai giovani: andate controcorrente, siate casti

L’amore sempre si comunica, l’amore sempre si fa nel dialogo. Il Papa ha chiuso la prima giornata della sua visita a Torino incontrando 90 mila giovani in piazza Vittorio. Francesco li ha invitati anche a vivere il loro amore castamente, evitando così  l’edonismo. Nel pomeriggio il Papa si è fermato nella Chiesa di Santa Teresa  dove si sono sposati i suoi nonni. Il servizio di Alessandro Guarasci: 

L’atmosfera a piazza Vittorio a Torino è quella delle grandi feste. Sono state mobilitate tutte le parrocchie del Piemonte per far arrivare le migliaia di ragazzi. La grande Croce della Gmg campeggia tra di loro. Il Papa invita quei ragazzi a vivere in pieno la loro vita, con amore, andando “controcorrente”, seguendo le parole del beato Pier Giorgio Frassati: “vivere, non vivacchiare”:

“A me danno tanta tristezza al cuore i giovani che vanno in pensione a 20 anni! Eh, sì! Sono invecchiati presto… Quello che fa che un giovane non vada in pensione è la voglia di amare”.

E questo perché per l’amore si “fa nel dialogo”, non è un sentimento romantico del momento, “è concreto… si sacrifica per gli altri”. E allora bisogna fare scelte radicali, Francesco le indica ai giovani anche a costo di essere impopolare:

“Ma l’amore è molto rispettoso delle persone, non usa le persone, e cioè l’amore è casto. E a voi giovani in questo mondo, in questo mondo edonista, in questo mondo dove soltanto ha pubblicità il piacere, passarla bene, fare bene la vita, io vi dico: siate casti, siate casti”.

Il Papa poi nota che spesso respiriamo un senso di sfiducia. D’altronde, come non potrebbe essere se pensiamo alle guerre, stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi. Un sentimento, la sfiducia, dettato anche dall’ipocrisia:

“A me fa pensare una sola cosa: gente dirigenti, imprenditori che si dicono ‘cristiani’ e fabbricano armi. E quello dà un po’ di sfiducia: ma si dicono ‘cristiani’!”.

Un’ipocrisia che nel secolo scorso è passata anche attraverso l’indifferenza degli Stati: pensiamo alla “grande tragedia dell’Armenia. Tanti milioni sono morti. Dove erano le grandi potenze di allora?" E ancora: la Shoah, perché non intervennero per fermare, bombardando, i treni che portavano ad Auschwitz? Nel pomeriggio, breve fuori programma: nel trasferimento dal Cottolengo a Piazza Vittorio, il Papa si è fermato nella Chiesa di Santa Teresa  dove si sono sposati i suoi nonni. Nel corso della breve visita, ha baciato il battistero e ha scritto una piccola dedica con riferimento al valore della famiglia e al prossimo Sinodo.

Il Papa al Cottolengo: scartare gli anziani è peccato sociale grave

Francesco nella Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, conosciuta come “Cottolengo”, ha incontrato gli anziani, i malati e i disabili. Da lui parole di compassione per quelli che ha definito “membra preziose della Chiesa” e di denuncia contro la cultura dello scarto e quel sistema sbagliato che non pone più l’uomo al centro ma il consumo e gli interessi economici. Il servizio di Cecilia Seppia:

La tenerezza, la compassione, la misericordia, in una parola sola l’amore: lo stesso che quasi due secoli fa guidò San Giuseppe Benedetto Cottolengo nell’opera grande di creare la Piccola Casa della Divina Provvidenza per accogliere i poveri, abbandonati e malati, quelli che nessuno voleva. E il Papa ricalca quell’amore, lo rende concreto nei gesti, mentre dice “non potevo venire a Torino senza fermarmi in questo luogo”. Ma poi tuona ancora contro la “cultura dello scarto”, contro chi di fronte al bisogno più estremo volta la faccia dall’altra parte:

“L’esclusione dei poveri e la difficoltà per gli indigenti a ricevere l’assistenza e le cure necessarie, è una situazione che purtroppo è presente ancora oggi. Sono stati fatti grandi progressi nella medicina e nell’assistenza sociale, ma si è diffusa anche una cultura dello scarto, come conseguenza di una crisi antropologica che non pone più l’uomo al centro, ma il consumo e gli interessi economici”.

Tra le prime vittime di questa cultura dello scarto, Francesco cita ancora gli anziani, “memoria e saggezza dei popoli”, la cui longevità, sostiene “non sempre viene vista come un dono” piuttosto “come un peso difficile da sostenere, soprattutto quando la loro salute è fortemente compromessa”.

“Questa mentalità non fa bene alla società ed è nostro compito sviluppare degli “anticorpi” contro questo modo di considerare gli anziani, o le persone con disabilità, quasi fossero vite non più degne di essere vissute. Questo è peccato, è un peccato sociale grave. Qui possiamo imparare un altro sguardo sulla vita e sulla persona umana!”.

Lo stesso sguardo che ha avuto San Giuseppe Cottolengo che “non è rimasto sordo all’appello di Gesù quando chiede di essere sfamato, dissetato, vestito e visitato”. Da lui afferma il Santo Padre possiamo imparare la concretezza dell’amore evangelico, cosicché molti poveri e malati possano trovare una “casa”, “vivere come in una famiglia, sentirsi appartenenti alla comunità e non esclusi”:

“Voi siete membra preziose della Chiesa, siete la carne di Cristo crocifisso che abbiamo l’onore di toccare e di servire con amore. Con la grazia di Gesù voi potete essere testimoni e apostoli della divina misericordia che salva il mondo”.

La ragion d’essere di questa Piccola Casa – ha concluso il Pontefice – non è l’assistenzialismo o la filantropia ma il Vangelo, perciò al centro prima di ogni azione umana deve esserci la preghiera:

“Il Vangelo dell’amore di Cristo è la forza che l’ha fatta nascere e che la fa andare avanti: l’amore di predilezione di Gesù per i più fragili e i più deboli. E per questo un’opera come questa non va avanti senza la preghiera, che è il primo e più importante lavoro della Piccola Casa”.

Infine, nel Cortile interno del Cottolengo, tra la commozione di decine di persone che non hanno trovato posto in Chiesa, il Papa ha accarezzato idealmente ogni malato e ha rivolto il suo grazie a chi, degli ultimi, continua a prendersi cura portando avanti la missione di questo “grande Santo della carità”:

“Vi saluto tutti, vi saluto di cuore! Vi ringrazio tanto, tanto di quello che fate per gli ammalati, per gli anziani e quello che fate con tenerezza, con tanto amore. Vi ringrazio tanto e vi chiedo di pregare per me, pregare per la Chiesa, pregare per i bambini…Pregare per i genitori, per le famiglie, ma da qui pregate per la Chiesa, pregate perché il Signore invii sacerdoti, invii suore, a fare questo lavoro, tanto lavoro!”.

 

 

Il Papa ai Salesiani: serve un’educazione a misura di crisi

La necessità di una "educazione a misura della crisi” è stata la priorità indicata da Papa Francesco nell’incontro con la famiglia Salesiana nella Basilica di Maria Ausiliatrice. L’incontro ha aperto il pomeriggio di ieri della visita pastorale a Torino, in occasione dell’Ostensione della Sindone e del bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco. Il servizio del nostro inviato, Amedeo Lomonaco:

Il Papa, parlando ha braccio, ha ricordato il profondo legame della sua famiglia con i Salesiani, la sua formazione imperniata sul modello educativo di don Bosco. Il Pontefice ha detto che i “Salesiani lo hanno aiutato ad affrontare la vita senza paure, ad andare avanti nella gioia e nella preghiera. Oggi i ragazzi più poveri – ha spiegato – hanno bisogno di un’educazione a misura di crisi. E’ necessaria una educazione di emergenza in grado di fornire, in poco tempo le competenze, necessarie per imparare un mestiere:

“Non pensiamo che questi ragazzi di strada, oggi, come stanno lì – io penso alla mia patria, che è dove li conosco – possano andare subito a fare il liceo classico, lo scientifico. Ma diamo loro qualcosa che sia fonte di lavoro”.

E in un mondo segnato dalla piaga della disoccupazione è particolarmente prezioso per i giovani – ha osservato il Pontefice – il modello di formazione proposto dai Salesiani:

“La creatività salesiana deve fare – so che fa, eh?, so che fa abbastanza! – prendere nelle mani queste sfide, queste sfide di oggi: educare. Ma anche portarli alla gioia, con la gioia salesiana, che è un’altra cosa che io ho imparato: quello della gioia salesiana non lo dimentico mai”.

 

 

Il pastore Bernardini: col Papa un incontro di fraternità e sincerità

Sullo storico incontro del Papa con i valdesi a Torino, il nostro inviato Fabio Colagrande ha raccolto i commenti del moderatore della Tavola valdese, il pastore Eugenio Bernardini, e di don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei  per l’ecumenismo e il dialogo:

D. – Pastore Bernardini, quali prospettive di dialogo si aprono oggi dopo questo incontro definito giustamente “storico”?

R.  – Noi ci auguriamo che utilizzando le sedi che già sono state utilizzate fino ad oggi sia per le nostre riflessioni comuni, sia per le nostre decisioni di impegno comune, possano in questo clima essere ancora più efficaci e coraggiose, in particolare mi riferisco alla Conferenza episcopale italiana. Noi abbiamo una buona collaborazione con l’Ufficio ecumenico della Conferenza episcopale italiana e con le parrocchie, con i vescovi locali e poi con l’associazionismo. Una visita come questa, le parole che ci siamo detti, il clima che speriamo di avere comunicato, di fraternità e sincerità, mi auguro che possano superare ancora magari qualche resistenza, qualche preoccupazione, qualche pregiudizio che in entrambe le Chiese possono essere presenti. Nessuna vuole imporre all’altra qualche cosa, ma abbiamo tanto da condividere e tanto da fare insieme.

D. – Come moderatore della Tavola valdese, quanto è importante la richiesta di perdono fatta da Francesco come Papa, come pastore della Chiesa cattolica, nei confronti delle violenze che sono state fatte, non umane, non cristiane, nei confronti dei valdesi, nella storia? Quanto conta questa richiesta?

R. – Le parole sono importanti, soprattutto tra cristiani che si fondano sulla Parola di Dio. Parole dette o non dette, parole sbagliate o parole giuste, fanno la differenza. Questa parola di perdono da Papa Francesco è stata una parola importante che noi accogliamo con gioia anche se vogliamo sottolineare che da parte nostra non sopravvivono più da tempo rancori, preoccupazioni, rivendicazioni, richieste di perdono, perché purtroppo la storia è quella che è. Ciò che è accaduto non si può cambiare, le sofferenze ci sono state, l’esclusione c’è stata, i martiri purtroppo ci sono stati. Ma quello che importa è esserne consapevoli e il Papa con questa sua espressione ce lo ha dichiarato, e essere impegnati a far sì che le cose non si ripetano. Purtroppo la storia ci insegna che nonostante tanto impegno, a volte, quello che non si vorrebbe si ripete e quindi una dichiarazione che può essere ricordata citata e richiamata come questa impegna le nostre Chiese al dialogo e non più al conflitto.

D. – Lei in conferenza stampa ha detto: il Papa dà il tono, però sono altri a scrivere la musica. Cosa intendeva? Voi attendete passi ufficiali da parte della Chiesa cattolica su questi aspetti?

R.  – Noi siamo consapevoli che c’è una collegialità, che ci sono procedure, che ci sono organi che devono assumere decisioni e sui temi più prettamente teologici, quelli su cui c’è divergenza da secoli nelle nostra Chiesa si devono esprimere questi organismi collegiali, maturare posizioni, trovare forme per scriverlo. Quindi abbiamo fiducia che delle forme si possono trovare, ma devono essere le forme giuste. Il Papa dà il tono nel senso che incoraggia questo cambiamento.

D. – Don Cristiano Bettega, quale passo in avanti è stato fatto in questo incontro?

R. – Secondo me è stato fatto un passo in avanti molto bello e molto anche commovente se posso dire così, racchiuso nell’appellativo con il quale i due si sono salutati: “fratelli”. Anche un Papa che chiede perdono per tutto quanto la Chiesa cattolica può aver fatto nel passato, anche specificatamente contro la Chiesa valdese: è un fratello che chiede perdono a un altro fratello.

D. - Entrambi, sia il pastore Bernardini sia il Papa, hanno sottolineato tra gli ambiti di collaborazione, al di là delle differenze teologiche, antropologiche, etiche, quello della tutela dei migranti: un segno dei tempi…

R. – Sì, un segno dei tempi. Allora, detto molto sinceramente: se la fortezza Europa - come è stata definita dalla stampa nei giorni scorsi, anche prima dell’incontro di oggi, ritorna un po’ questa espressione - se la fortezza Europa sembra nel suo complesso, onestamente, sorda a questo problema o comunque sembra voler prendere le distanze e pensare soltanto a una sorta di autodifesa, noi come cristiani non possiamo tacere su questo. E’ impensabile che si taccia e dico, appunto, “noi come cristiani”. Se è vero che l’unione fa la forza è vero anche in questo argomento: se un cristiano solo, una Chiesa, una espressione cristiana, dice come la pensa avrà una voce e un impatto senz’altro minore rispetto al fatto se sono due o tre o quattro espressioni cristiane che dicono congiuntamente la stessa cosa. A me ha colpito tantissimo quando il moderatore nel suo saluto ha fatto accenno all’emergenza dei profughi e alla necessità dell’accoglienza che ci viene dal Vangelo e il Papa ha annuito, e a me sembrava di capire, davvero con grande partecipazione, probabilmente perché da quanto si può semplicemente intuire è una cosa che lui tiene assolutamente nel cuore. Ma non deve essere solo il Papa che la tiene nel cuore: deve essere la cristianità che la tiene nel cuore.

Sull’incontro, Fabio Colagrande ha sentito anche il pastore valdese Luca Baratto:

R. - Sicuramente è un momento storico importante per noi. Innanzi tutto è un momento di grande fraternità, non formale, ma autentica, anche in queste parole di perdono che ha espresso Papa Francesco e che noi accogliamo con riconoscenza; ma anche autentico dal punto di vista di chi ce lo ha portato e per questo noi siamo riconoscenti di queste parole.

D. - Quale passo in avanti  è stato compiuto oggi concretamente?

R. - Sono stati detti chiaramente due elementi teologici che ancora ci dividono: quello delle comunità ecclesiali e non Chiese e quello dell’ospitalità eucaristica, in realtà collegati  tra loro. È importante che in un momento di fraternità si dicano anche francamente alcune cose che rimangono in sospeso e che dal nostro punto di vista evangelico sono pericolosamente in sospeso. Dall’altro lato è stato importante rinnovare un’idea di collaborazione e di impegno della società, soprattutto nei confronti dei migranti. Il cristiano è qualcuno che incontra delle persone. È importante dire che i migranti sono persone; noi li incontriamo per questo, per i loro bisogni, per le loro necessità, e lo facciamo insieme.

D. – Da valdese, che cosa apprezza del magistero di Francesco?

R. – Da valdese apprezzo l’autenticità, il fatto che sostanzialmente la persona viene prima del principio e che c’è questa strana comunanza di Italia-Argentina. I valdesi sono sia in Italia che in Argentina e Uruguay. Quelli che si trovano in Uruguay sono figli di emigrati dall’Italia. È una storia che non è diversa da quella della famiglia di Francesco.

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