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Riflessioni di un laico non laicista

Continua la testimonianza e l’amorevole esortazione di Papa Francesco il quale, rivolgendosi ai presbiteri del mondo, li richiama a una vera autenticità di vita e di presenza, come lo fu Cristo, pastore delle anime, con l’«odore delle pecore e la buona stanchezza».

Quella del presbitero è sicuramente la figura più diretta nella Chiesa ma anche più popolare, perché alla sua persona si rapportano tanti uomini, credenti e non, del territorio nel quale si trova a vivere e ad adempiere la sua missione di messaggero della Buona Notizia. Il termine stesso (dal greco πρεσβύτερος, presbýteros, “più anziano”; dal latino presbite, da cui deriva prete) lo pone nella Chiesa cattolica, in forza di una specifica ordinazione,  con il mandato di presiedere il culto, guidare la comunità cristiana e annunciare la parola di Dio. Questi tre ruoli, sacerdotale, regale (della carità) e profetico, ne fanno un uomo che vive nel mondo, per il mondo e “fuori” (testamento di Gesù del Giovedì Santo e Lettera a Diogneto), ma con uno sguardo e una tensione rivolti a Dio. Da questo ne deriva che egli deve saper mediare tra la terra e il cielo e, in questo ruolo, essere lui primo testimone dell’annuncio della Resurrezione e modello di vita. Così lo vuole Cristo e così si aspettano che sia la moltitudine dei battezzati. Essi «abbiano cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo. Divenuti, spontaneamente, modelli del gregge presiedano e servano la loro comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col nome di cui è insignito tutto e solo il Popolo di Dio, cioè Chiesa di Dio» (LG 28).

Da queste linee derivano alcuni tratti peculiari della sua figura. Il prete deve essere uomo di Dio, dedito alla preghiera e all’amministrazione dei Sacramenti (è bene che si faccia trovare spesso davanti a Gesù Eucaristico e nel Confessionale). La sua testimonianza sia di persona umile, capace di chiedere perdono, povera (come espressione dell’essenzialità), obbediente (il mandato che riceve dalla Chiesa e dal suo vescovo in particolare lo obbligano a una comunione stretta con lui e con il suo insegnamento), e si sappia privare di tutte quelle mondanità che lo distraggono dal suo compito. Il celibato che ha abbracciato lo renda fedele a Cristo, nudo sulla Croce.

Nei confronti degli altri sia sempre disponibile, fino alla stanchezza ma con gioia, come dice Papa Bergoglio, aperto verso tutti: «Si ricordino - dice la stessa Costituzione Conciliare – che devono, nella loro quotidiana condotta e sollecitudine presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici, l’immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti la testimonianza della verità e della vita, e come buoni pastori, ricercare anche quelli che, sebbene battezzati nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato la pratica dei sacramenti, o persino la fede» (ib.).

Il sacerdote ordinato (dal latino sacer-dans = chi dona il sacro), che rappresenta “la chiesa in uscita”, deve essere aperto verso i “crocifissi” esistenziali, verso chi ha desiderio d’incontrarlo nelle case, nei luoghi di lavoro, incarnandosi nelle storie e nella storia, capace di vedere negli occhi di ogni donna e bambino la purezza e tenerezza di Dio e in ogni uomo la Sua forza, misericordioso: «Per noi sacerdoti – ha detto Papa Francesco nell’omelia del Giovedì Santo – le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate». Tutto dovrà essere fatto con le braccia aperte, come chi aspetta da tempo, senza rimandare o sentirsi annoiati. Ancora il Papa: «Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: “Venite, benedetti del Padre mio” (Mt 25,34)».

E quando vediamo qualche prete che è in difficoltà, come si conviene in buona famiglia, dobbiamo essergli vicino, per confortarlo, condividere le “spine” del suo e nostro cammino, fasciandogli i piedi stanchi e le mani piagate. Pregare con lui e condividere la fatica dell’apostolato sono una buona abitudine che i seguaci di Gesù devono imparare prima di puntare l’indice per la condanna. Questa comunione di responsabilità è quella che ci fa sentire veri fratelli, viandanti comuni, figli dello stesso Padre ed eredi del cielo.

Erice, 08 aprile 2015

SALVATORE AGUECI

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