Novità - Eventi di rilievo

Attraverso una serie di interventi tenuti nel corso di un quarantennio (1974-2014), il volume "Pastorale sociale" (Milano, Jaca Book, 2015, pagine 398, euro 14) a cura di Marco Gallo ripercorre il pensiero sociale e politico di Bergoglio. Pubblichiamo stralci da un saggio del 1980.

(Jorge Mario Bergoglio)

Una tentazione in cui possiamo cadere è quella dell’eterno ripiegamento in noi stessi, dell’accontentarci di ciò che abbiamo ottenuto. E questo non è bene: è un veleno per l’anima. Ma non è bene nemmeno vivere nel disagio, nel dubbio, nella continua messa in discussione di tutto, come se non volessimo sentire la consolazione del Signore.

Come procedere, dunque, accettando i doni e le visite del Signore senza però al contempo rinchiudersi in essi e quindi non avanzare? Occorre ricordare che la condizione abituale del gesuita deve essere la consolazione, almeno nella sua espressione di pace. Come dice sant’Ignazio, la consolazione è «ogni aumento di speranza, fede e carità e ogni letizia interna che chiama e attrae alle cose celesti e alla salvezza della propria anima, quietandola e pacificandola nel suo Creatore e Signore» (Esercizi spirituali 316).

La lotta quotidiana per il Regno deve portarci a «respingere» la desolazione (cfr. Esercizi spirituali, 313) e a farci abituare a vivere discretamente nella pace che è frutto dei doni del Signore, poiché è da questa pace e da questa consolazione (dell’anima quieta e pacificata) che nasce la creatività apostolica, il più fecondo criterio di azione. Al contrario, è proprio del «cattivo spirito» temere la gioia che porta con sé la visita del Signore. È un pudore nocivo, direi quasi insolente, che finisce per torturarci nella sterilità.

Ma anche ingolosirsi della consolazione è male, un atteggiamento successivo alla consolazione vera, che può nascere «sia per il proprio modo di ragionare (...) sia sotto l’effetto del cattivo spirito» (cfr. Esercizi spirituali 336). Allo stesso modo, è male non accettare la consolazione e la pace del Signore (cfr. Matteo 28, 17; Marco 16, 18; Luca 24, 11.25.41; Giovanni 20, 25 e 27-20).

Se così dovesse essere, ci sarà di grande giovamento, seguendo il consiglio di sant’Ignazio, «fare molta attenzione al corso dei pensieri e (...) se nel corso dei pensieri (...) si va a finire in qualche cosa cattiva o distrattiva o meno buona di quella che l’anima si era prima proposta di fare, o la infiacchisce o inquieta, o conturba l’anima, togliendo la sua pace, tranquillità e quiete che prima aveva», poiché è un «chiaro segno che questo procede dal cattivo spirito, nemico del nostro progresso e salvezza eterna» (Esercizi spirituali 333).

Persino il desiderio di disprezzo e umiliazione, come si potrebbe dare nell’azione apostolica, deve trovare la sua radice nella gioia e nella pace di sentirsi perdonati, come dice sant’Ignazio quando si chiede «cosa ho fatto per Cristo, cosa faccio per Cristo, cosa devo fare per Cristo» (Esercizi spirituali 53).

Esiste una creatività che nasce dalla gioia del Signore e che è una grazia. È la creatività che prende corpo nella scelta ignaziana e che si consolida nella conferma che ci dà il Signore. Quando, nel Principio e Fondamento degli Esercizi, vediamo perché siamo creati; quando, negli stessi Esercizi, rinnoviamo la nostra offerta al Re Eterno (Esercizi spirituali 97) e poi chiediamo di essere «ricevuti sotto la sua bandiera» (Esercizi spirituali 147), fino al punto di sopportare «ignominie e ingiurie per più imitarlo [il Signore]» (ibidem), cercando così di raggiungere «la terza maggiore e migliore umiltà, al fine di imitarlo e servirlo di più, se fosse di uguale o maggiore servizio e lode di sua divina maestà» (Esercizi spirituali 168), e con questi sentimenti chiediamo al Signore cosa vuole da noi, allora siamo creativi in Dio: il nostro magis ha un volto concreto, comporta sfide concrete, richiede soluzioni concrete.

Anche tale creatività, poiché è grazia, può essere soggetta alla tentazione: quando ci restano le conseguenze della consolazione e crediamo che in esse stia parlando il Signore (cfr. Esercizi spirituali 336), e ci ingolosiamo diventando passivi, «immobili»; o quando semplicemente non accettiamo il conforto di Gesù, come se ne avessimo timore, e ci lasciamo imprigionare dall’affanno di cercare uno spirito «creativo» che, in definitiva, è un’illusione priva di radici storiche. Di fronte a queste due tentazioni possibili, dobbiamo ricordare che la nostra creatività in Dio deve essere al tempo stesso semplice e forte: un avanzamento continuo, senza mai fermarci, nello spirito creativo con cui il Signore ha voluto benedirci.

Coloro che gioiscono estaticamente dei progressi apostolici fin qui raggiunti non superano mai lo spirito infantile, che sa soltanto chiedere per la propria soddisfazione. D’altra parte, coloro che si affannano a cercare una creatività nell’aria dimostrano di avere, con il loro comportamento, uno spirito adolescenziale, capace soltanto di proteste e rivendicazioni, poiché non accettano nel loro cuore l’appartenenza al gruppo apostolico — sacerdotale, religioso, laico —, che è come una casa o una famiglia in cui si dà la gioia nel Signore che, essendo la nostra forza, ci identifica e ci rinsalda. I primi sono superficiali per comodità; i secondi sono tormentati, più quaccheri che cattolici, i neonati di cui parla san Paolo. Entrambi negano la storia: i primi nel loro continuo procedere; i secondi nel loro lento consolidarsi per non diventare disprezzabili a causa della loro debolezza. Questi due atteggiamenti non aiutano il servizio divino perché non sono del Signore.

A volte, dovremmo interrogarci sull’insoddisfazione, sul «sentimento di colpa» nascosto, sull’assenza di identità apostolica — sacerdotale, religiosa, laica — che può annidarsi in queste posizioni. Chi ne è affetto evidentemente non è ancora riuscito ad accettare le antinomie che costituiscono il nostro essere apostoli e che trovano la loro formula riassuntiva nel classico, all’interno della spiritualità gesuita, «essere contemplativi (...) nell’azione».

La nostra deve essere una creatività adulta, con il sorriso fresco di chi è felice perché circondato dalla tenerezza e dalla benedizione del Signore, ma anche con la sagacia di giudizio di chi ha compreso che persino nelle consolazioni — o subito dopo di esse — il demonio può tentarci (cfr. Esercizi spirituali 331). La nostra creatività è, in ultima analisi, una grazia, e pertanto bisogna chiederla; e quando ci viene concessa, dobbiamo conservarla.

Esiste una coesione — o unione degli «animi», di cui parla sant’Ignazio nella Parte VIII delle Costituzioni — che è punto di partenza e di riferimento della nostra creatività apostolica. La tentazione, invece, può portarci a fantasticare su una creatività marginale o che prescinde dall’unità del corpo apostolico di cui facciamo parte. Un’attività creativa di tale indole non può avere futuro: lavora in funzione del momento, negando il tempo, il tempo di Dio.

È proprio del cattivo spirito proporre successi momentanei; mentirci facendoci intravedere il «momento» come se fosse tempo o eternità. Il risultato di una simile fallacia è la desolazione, la discordia, «l’oscurità dell’anima, turbamento in essa, mozione verso le cose basse e terrene, inquietudine da agitazioni e tentazioni diverse, che portano a sfiducia, senza speranza, senza amore, e la persona si trova tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore» (Esercizi spirituali 317).

L'Osservatore Romano, 16 giugno 2015 - http://ilsismografo.blogspot.it/

 

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