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Vivevano ad Alençon, nella Bassa Normandia, uno dei luoghi scelti da Balzac per ambientare le «scene della vita di provincia» della sua Commedia umana . Louis Martin voleva entrare da ragazzo nel monastero di San Bernardo, ma non sapeva il latino; Azélie Guérin desiderava farsi suora all' Hôtel-Dieu, ma fu dissuasa dalla superiora. Lui finì a lavorare nella bottega da orologiaio di famiglia, lei aprì un negozio di merletti. Quando s' incontrano sul Pont de Sarthe, nel 1858, non sono più due ragazzi ma un uomo di 34 anni e un donna di 27 che s' innamorano e di lì a tre mesi si sposano. Dei nove figli sopravvissero solo cinque ragazze, tutte entrate in monastero.

 

Nulla di straordinario, in apparenza, nella vita della coppia che papa Francesco, ieri, ha proclamato solennemente santi in piazza San Pietro: eppure è la prima volta nella storia della Chiesa che due sposi, non martiri, vengono canonizzati insieme. Certo, almeno una cosa straordinaria c' è, nella storia della famiglia. Una delle figlie divenute monache, Thérèse Françoise, morta ad appena ventiquattro anni, è nota in tutto il mondo come Teresa di Lisieux, santa e Dottore della Chiesa e copatrona di Francia assieme a Giovanna d' Arco. Ma non è questa la ragione per cui i genitori di Santa Teresa sono diventati santi novant' anni dopo la canonizzazione della figlia. La ragione, piuttosto, sta nell' ambiente familiare nel quale Santa Teresa si trovò a crescere. Nell' omelia, ieri, Francesco ha scandito: «C' è incompatibilità tra un modo di concepire il potere secondo criteri mondani e l' umile servizio che dovrebbe caratterizzare l' autorità secondo l' insegnamento e l' esempio di Gesù. Incompatibilità tra ambizioni, arrivismi e sequela di Cristo; incompatibilità tra onori, successo, fama, trionfi terreni e la logica di Cristo crocifisso». Il Papa ha voluto canonizzare la prima coppia di sposi mentre in Vaticano si riunisce il Sinodo sulla famiglia.

E la vicenda di Azélie Guérin e Louis Martin dice qualcosa di essenziale dell' idea di Chiesa che Francesco vuole affermare: l' idea della missione, della testimonianza quotidiana, perché «la vera autorità nella Chiesa viene esercitata da chi serve gli altri ed è realmente senza prestigio». Un ritorno ai fondamentali del Vangelo, a partire da Isaia e dalla figura biblica del Servo di Jahwé, «un personaggio che non vanta genealogie illustri, è disprezzato, evitato da tutti, esperto del soffrire; uno a cui non attribuiscono imprese grandiose né celebri discorsi, ma che porta a compimento il piano di Dio attraverso una presenza umile e silenziosa e attraverso il proprio patire». Così Francesco riprende le parole di Gesù a Giacomo e Giovanni che ambivano a sedere accanto a lui nel Regno di Dio: «La sua risposta è un invito a seguirlo sulla via dell' amore e del servizio, respingendo la tentazione mondana di voler primeggiare e comandare sugli altri. Di fronte a gente che briga per ottenere il potere e il successo, i discepoli sono chiamati a fare il contrario».

Ecco: «Gesù ci invita a cambiare mentalità e passare dalla bramosia del potere alla gioia di scomparire e servire; a sradicare l' istinto del dominio sugli altri ed esercitare la virtù dell' umiltà». Nell' ultima settimana del Sinodo verranno approfonditi i temi più controversi, le cosiddette situazioni «difficili», dalle coppie di fatto ai divorziati e risposati alla «accoglienza» degli omosessuali. Le ultime parole del Papa, ieri, non sono dette a caso: «Gesù esercita essenzialmente un sacerdozio di misericordia e di compassione. Egli ha fatto l' esperienza diretta delle nostre difficoltà, conosce dall' interno la nostra condizione umana; il non aver sperimentato il peccato non gli impedisce di capire i peccatori.

La sua gloria non è quella dell' ambizione o della sete di dominio, ma è la gloria di amare gli uomini, assumere e condividere la loro debolezza e offrire loro la grazia che risana, accompagnare con tenerezza infinita il loro cammino tribolato». http://ilsismografo.blogspot.it/

 

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